“Giuseppe Berto era mio padre…”
di Pino Nano
“Appena la vidi seppi che quella terra, dalla quale si scorgevano magiche isole, era la mia seconda terra, e qui son venuto a vivere. Sto su un promontorio alto sul mare, è un panorama stupendo. E quando il giorno, dalla punta del mio promontorio, guardo gli scogli e le spiaggette cento metri sotto il mare limpidissimo che si fa subito blu profondo, so di trovarmi in uno dei luoghi più belli della terra…L’Isola degli aranci sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c’è un piccolo tratto di mare proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, … e così verso sera cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia, (…) ecco qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre e penso che in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte…”.(Giuseppe Berto, “Il Male Oscuro”)
-Antonia, a 100 anni dalla sua nascita nessuno meglio di sua figlia può raccontarmi fino in fondo cos’era per Giuseppe Berto la Calabria, e in modo speciale cosa rappresentava per lui Capo Vaticano?
Capo Vaticano è stato il suo “buon retiro”, come spesso tutti ricordano. Era un luogo speciale soprattutto perché qui ha trovato la tranquillità necessaria per scrivere, è il luogo in cui scrisse “Il male oscuro”, considerato il suo grande capolavoro, “La gloria”, che è il suo l’ultimo romanzo, e “La Fantarca”, questo testo definito una sorta di fantasy distopico che racconta proprio della Calabria e dei calabresi – e che nelle scorse settimane è stato riedito da Neri Pozza. Evidentemente era un posto che metteva insieme molte cose del suo carattere.
-Mi ricorda come arrivò, e quando per la prima volta, a Capo Vaticano?
Arrivò a metà degli anni Cinquanta, insieme a mia madre. Erano diretti in Sicilia, e durante il viaggio fecero uno stop in Calabria, proprio al Capo: ne rimase folgorato. Ci tornò con l’amico, grande documentarista Rai, Virgilio Sabel e fu “amore a prima vista”. Venendo a sapere immediatamente che c’era un contadino che voleva vendere quella terra lui l’acquistò seduta stante. Fu un colpo di fulmine, diciamo, e anche un po’ di “serendipity”, di fortuna, essendo riuscito a chiudere l’affare in così breve tempo.
-Cosa le diceva suo padre di questo posto?
Non è che mio padre parlasse molto del posto. Certo, diceva che stava bene qui, ci passava gran parte del tempo, ma più che parlarne lo viveva, viveva le persone del luogo. Conosceva tutti, dal farista, ai contadini, ai negozianti. Molti lo venivano a trovare, giocavano a carte, chiacchieravano con lui nei suoi momenti liberi, ovviamente non quando scriveva, perché contrariamente a quanto si dice su di lui mio padre aveva un carattere gioviale. Non a caso costruì un manufatto che chiamò – e ancora oggi si chiama – “Night”, che sta proprio a picco sulla estrema punta di Capo Vaticano, accanto al faro, forse uno dei posti più belli del Tirreno, e lì lui organizzava feste, invitava i suoi amici. Ho delle foto al “Night” con personaggi noti come Alberto Lupo, Anna Magnani e tanti altri.
-Che ricordi personali lei ha legati a questo luogo?
Io ho tantissimi, davvero tanti ricordi. Sia quelli legati alla mia infanzia e giovinezza, che quelli costruiti qui negli ultimi anni. Da quando sono tornata in Italia dagli Stati Uniti, dopo oltre trent’anni, mi sono definitivamente trasferita nella tenuta e abbiamo dato vita, nel 2015, al festival “Estate a casa Berto”. Tra i ricordi più nitidi, ma anche forti per certi versi, c’è sicuramente l’anno che trascorsi qui mentre mio padre scriveva il male Oscuro e io frequentavo le scuole elementari a Ricadi.
-Perché Berto scelse questo posto per il suo ultimo romanzo?
Ma non è che scelse propriamente questo posto per il suo ultimo romanzo, lui veramente viveva qui salvo diverse necessità, quindi “La Gloria”, che appunto è il suo ultimo romanzo, nacque qui, al chiuso di una piccola cameretta di due metri per uno della casa principale. Come dicevo questo era un luogo speciale per lui, si trovava a suo agio per scrivere i libri ma non solo. E comunque credo che qualsiasi scrittore si troverebbe a proprio agio a scrivere i libri a Capo Vaticano, è un piccolo paradiso terrestre che ancora oggi è tale.
-Come padre come se lo ricorda?
Io avevo un ottimo rapporto con mio padre anche se erano anni turbolenti. Soprattutto gli anni ‘70 – mio padre è morto nel ‘78 – e io in quegli anni ero impegnata politicamente a Roma, dove frequentavo il liceo. Ci vedevamo sempre, anche se subivo un po’ il fatto di essere la figlia del grande scrittore che era considerato, da molti suoi colleghi, di destra, anche se non lo era, ma io invece ero schierata dall’altra parte e quindi chiaramente ci appassionavano a infinite discussioni politiche. Lo ricordo come una persona non propriamente intellettuale, con lui si poteva parlare di tutto, aveva anche un lato artigianale che a me piaceva molto; magari a volte poteva sembrare chiuso, ma lui ed io avevamo un fortissimo legame.
-Com’era in famiglia suo padre? Presente, o sempre distratto dalle sue mille cose?
Mio padre soprattutto nel momento del grande successo, negli anni ‘60 e ‘70, o stava a Capo Vaticano o in giro per l’Italia, o per il mondo e mia madre pure, e quindi alla fine è difficile per me parlare del nucleo familiare in sé. Eravamo comunque tre persone, mia madre, io e mio padre con netti e forti caratteri, anche se i miei genitori mi hanno sempre concesso grande libertà, nel rispetto del loro ruolo genitoriale. Quindi ecco ci definirei una famiglia un pò particolare, soprattutto per quegli anni, nulla più.
-Che bilancio si sente di fare di queste iniziative realizzate qui dove lui ha vissuto parte della sua vita?
Nel nome di mio padre dieci anni fa ho deciso con Marco Mottolese, che è il mio miglior amico da sempre, di creare qualcosa di importante perché questa è una terra meravigliosa e perché nel nome di Berto a noi risulta più facile invitare grandi personaggi, registi, scrittori, attori e varie personalità del panorama culturale. Chiaramente è stata una scelta fatta nell’ambito anche di un rilancio globale della sua figura, che passa dalla ristampa di tutti i suoi libri con un nuovo editore, passando da Rizzoli a Neri Pozza, e con il rilancio delle sue opere teatrali e del cinema. Ad esempio “Anonimo Veneziano” diventerà un film internazionale, ne verrà fatto un remake del grandissimo successo degli anni ‘70; a teatro è stato rilanciato più volte. Probabilmente si sta per concludere anche una novità: per la prima volta vedremo “Il male oscuro” a teatro, a cura di importantissimi stabili uniti per l’occasione. La cura dell’eredità morale e letteraria di mio padre mi impegna molto ma lo faccio con immenso piacere.
-Antonia posso chiederle in che modo la Calabria ha accolto queste vostre manifestazioni?
Le confesso che la Calabria è stata guardinga, all’inizio abbiamo fatto da soli, da tutti i punti di vista, anche economico-finanziari. Con il tempo, e grazie ad una programmazione di grande qualità, siamo riusciti a guadagnare la fiducia del pubblico. E così quest’anno, nel decennale del festival, abbiamo ottenuto per la prima volta un finanziamento dalla Regione Calabria che indubbiamente ci dà una mano ma ci fa capire che la nostra attività sia stata riconosciuta a livello regionale, dopo che abbiamo ancor prima raggiunto un riconoscimento a livello nazionale. Quindi, da questo punto di vista, devo dire che siamo molto contenti perché significa che anche la Calabria guarda con attenzione le nostre attività.
-A chi crede di poter dire grazie per il modo come Berto viene ricordato?
A diverse persone. A mio marito Philip Smith, che mi segue in ogni iniziativa, anche e soprattutto da quando siamo tornati dall’America, dove ho vissuto per 33 anni, per poi rimanere in Italia. A Marco Mottolese, che ha coinvolto tanti artisti e scrittori e registi che una volta qui si sono innamorati del luogo e del festival. E poi al grande team di persone che aiutano tutto l’anno le varie attività. Alcuni giovani calabresi in special modo. E poi all’agente letterario Marco Vigevani, il più importante d’Italia, e all’editore Neri Pozza che hanno creduto nel rilancio dei libri di mio padre. Ma anche ai giornalisti che seguono con grande attenzione ormai tutto quello che viene fuori nel nome di mio padre, quindi sia le ristampe dei libri, le riedizioni, ma anche le nostre attività, ritornando ogni anno al Capo per prendere parte al festival. Ma anche ai tanti artisti che sono accorsi in questi dieci anni, inizialmente sulla fiducia.
-Colgo nelle sue parole un pizzico di orgoglio o sbaglio?
Qui a Capo Vaticano c’è un faro vero e un faro simbolico, quello acceso su tutte queste cose che abbiamo realizzato in soli dieci anni. Siano stati, tutti insieme, in grado di rilanciare uno scrittore tra i più importanti del secondo ‘900 italiano. Non è da tutti avere una squadra che lavora per te anche se tu non sei più.
-Sarà ancora così il prossimo anno?
Il prossimo anno un nuovo inizio, un anno “uno”, perché abbiamo raggiunto i primi dieci quindi ricominciamo da uno. E sarà sempre nello stesso spirito di un “family festival” che, senza volerlo, è diventata un’etichetta molto importante. Perché di “family festival” di questo tipo non è che ce ne siano in giro. Da noi, sia chi viene sul palco, sia chi siede in platea, sente di essere in una casa, a casa Berto, e noi accogliamo tutti come una grande famiglia.
-Se lei avesse una bacchetta magica, come trasformerebbe ancora questo posto?
La bacchetta magica l’ha avuta mio padre trovando, scegliendo e acquistando il posto. Io non farei nulla, lo lascerei come è, perché è un posto che lui in qualche maniera ha salvato, perché sappiamo com’è adesso la zona di Capo Vaticano, con l’avvento del turismo di massa simboleggiato, ad esempio, dal “non finito” calabrese, al quale abbiamo dedicato una serata del festival di quest’anno. Invece, quando si entra nel cancello della nostra tenuta ci si trova di fronte ad un grande giardino mediterraneo affacciato direttamente sul Tirreno e si percepisce l’abbagliante bellezza della Calabria di un tempo e come, purtroppo, non è più. Quindi niente bacchetta magica perché la bacchetta magica l’ha avuta lui, mio padre, e, devo dire la verità, è stata anche fatata.
La sua vita di scrittore di successo
Giuseppe Berto nasce a Mogliano Veneto il 27 dicembre 1914, secondo di cinque figli, il padre è un maresciallo dei carabinieri in congedo, la madre una negoziante di cappelli e ombrelli.
Compiuti gli studi liceali nel Collegio Salesiano Astori e nel Liceo di Treviso, si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova, e studia con maestri quali Concetto Marchesi e Manara Valgimigli.
Ben presto parte volontario per l’Africa Orientale, partecipando alla guerra di Abissinia, nel 1935, e combattendo come sottotenente in un battaglione di truppe di colore si guadagna un paio di medaglie al Valore Militare e qualche ferita.
Tornato in patria, nel 1939, riprende gli studi e si laurea abbastanza in fretta “anche per la benevolenza di certi esaminatori che gradivano il fatto che si presentava agli esami in divisa, ostentando le decorazioni al Valore Militare”, come lui stesso racconta nel Male oscuro.
Dopo la laurea insegna, prima Latino e Storia in un Istituto Magistrale, poi Italiano e Storia in un Istituto Tecnico per Geometri, ma ben presto lascia l’insegnamento e si arruola nella Milizia volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Inviato a combattere in Africa Settentrionale, dopo essere stato incorporato nel 6° Battaglione Camicie Nere “M”, i fedelissimi di Mussolini, cade prigioniero il 13 maggio 1943 degli americani. È proprio durante la prigionia nel campo di internati in Texas che Berto inizia a scrivere.
Ha come compagni di prigionia Dante Troisi, Gaetano Tumiati e Alberto Burri, che lo incoraggiano a scrivere nella rivista Argomenti. Lì compone Le opere di Dio e Il cielo è rosso; quest’ultimo romanzo, pubblicato da Longanesi nel 1947, su segnalazione di Giovanni Comisso, diviene rapidamente un successo internazionale dopo aver vinto nel 1948 il Premio Firenze. Escono, poi, nel 1948 Le opere di Dio, e nel 1951 Il brigante.
Per la sua storia, il suo stile letterario così moderno per i suoi tempi e così attuale per l’oggi che premia ancora i suoi libri con una richiesta di mercato ancora viva, grazie alla quale importanti editori stanno pensando a pubblicarne riedizioni.
Trasferitosi a Roma, comincia a lavorare per il cinema: in questo periodo escono nel 1955 Guerra in camicia nera e nel 1963 il volume di racconti Un po’ di successo.
Berto nel 1958 cade in una grave forma di nevrosi, ne uscirà dopo tre anni di analisi quando compone Il male oscuro, che vince contemporaneamente nel 1964 il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Si aggiungono poi il dramma L’uomo e la sua morte (1963), La fantarca (1964) e il romanzo La cosa buffa (1966).
Nel 1971 scrive il pamphlet Modesta proposta per prevenire e il lavoro teatrale Anonimo veneziano, ripubblicato come romanzo nel 1976. Con la favola ecologica Oh, Serafina! vince nel 1974 il Premio Bancarella. Dal dramma La passione secondo noi stessi, Berto matura l’idea portante del suo ultimo libro La gloria del 1978.
Si spegne a Roma il 1° novembre 1978, ma oggi è sepolto a Capo Vaticano, nel piccolo cimitero di Ricadi dove aveva chiesto di voler riposare per sempre.
Nel 2013 nasce in suo ricordo l’Associazione Giuseppe Berto, e nasce su iniziativa di Manuela e Antonia Berto, rispettivamente moglie e figlia dello scrittore veneto. L’intento è valorizzare la figura di Giuseppe Berto non solo come scrittore, ma anche di autore per il teatro, per il cinema e per tutte le variegate attività culturali che hanno contraddistinto la sua vita, per riportare l’attenzione sulla sua figura complessa ma senz’altro affascinante, uno scrittore che, nonostante i suoi grandi successi è stato troppo spesso trascurato dalla critica ufficiale a causa del suo straordinario anticonformismo.
“Il Giuseppe Berto che io amo…”
-Professore Pierfranco Bruni, il mese scorso a Capo Vaticano lei ha tenuto una lezione su Giuseppe Berto che ha letteralmente commosso tutti, e ne ha parlato con una intensità che è davvero molto rara nel mondo dei libri, e soprattutto degli scrittori…
Le dico subito che io a Berto resto legato per due libri che reputo fondamentali anche nella mia formazione letteraria sui contemporanei, Anonimo veneziano e La gloria. Le confesso anche che non ho mai smesso di leggere Berto nel corso dei miei anni. In occasione del centenario della nascita il Centro Studi “Francesco Grisi” pubblicherà uno studio partendo proprio da un ricordo che ci ha lasciato Grisi e inserendo la lettera nel testo. Un saggio, a più voci, articolato su tre coordinate: La sua guerra in camicia nera, L’inquieto e l’amore, Il dubbio e la cristianità.
-Lei ha parlato di un grande scrittore contemporaneo…
Ho detto quello che penso da sempre, in Giuseppe Berto si vive un intreccio non solo letterario, ma anche esistenziale e psicologico tutto giocato tra amore e morte. Ovvero tra la capacità dell’amore di farsi definizione ancestrale di un modello di vita, che ha in sé il senso del destino, e la realtà della morte che diventa, nei suoi scritti, sempre più consapevolezza di un andare nel di dentro della vita stessa senza la paura della perdita.
-Come lo definirebbe oggi lei Giuseppe Berto?
Come uno scrittore che ha amato il mare e soprattutto la Calabria. Che ha amato la Calabria più di quanto non si immaginasse, e io ho avuto modo di raccontarlo in due trasmissioni per la Rai, sino a sondarne le viscere e lì continua a vivere. Ma è un discorso altro che è nei luoghi della sua metafisica geografica e spirituale.
-Perché lei dice che Il Male Oscuro di Berto è solo l’inizio di questo grande intellettuale trapiantato in Calabria?
Il male oscuro è del 1964 e segna, comunque, il suo punto di riferimento non solo letterario, ma anche esistenziale. È Il male oscuro che rende Berto scrittore “nuovo” in un contesto in cui il legame letteratura e psicanalisi costituiva un dialogo sempre aperto e discutibile. Ci sono i libri di memoria come “Il cielo rosso”, del 1947 e poi Guerra in camicia nera del 1955. Altri come Il brigante del 1951. Al 1978 appartiene La gloria in cui c’è un rapporto costante tra Gesù e Giuda. Un libro tutto da rileggere e da rimeditare. La figura di Giuda è centrale.
-Per la prima volta ho sentito dalle sue parole che in Berto c’era anche una religiosità profonda, forse anche malcelata?
Berto è uno scrittore importante del rapporto tra amore – morte, ma anche uno scrittore che va alla ricerca di una religiosità che si fa sempre più ricerca cristiana, intenso travaglio, inquietudine, turbamento, disperazione. È così in La gloria. Forse il libro più conflittuale che ha lasciato. È del 1966 invece Lacosa buffa. Un romanzo d’amore che, comunque, non raggiunge quella tensione lirica alla quale lo stesso Berto tendeva. È con Anonimo veneziano che l’incontro tra amore e morte non si fa solo denso di significato tragico, ma è un romanzo che vuole tagliare e dimenticare la disperazione e l’amicizia.
-Parliamo del film Anonimo Veneziano?
Il romanzo in realtà nasce come dialogo di un film. Era il 1971.Berto lo scrisse per Enrico Maria Salerno nel 1967. Ci furono altre stesure dello scritto stesso. Ma è la problematicità che vive dentro le pagine di un romanzo agilissimo nel quale, appunto, si gioca un rapporto di coppia. L’amore prima, il conflitto dopo, la morte alla fine. Siamo a Venezia. La Venezia dei miti, ma anche la Venezia di Thomas Mann. È la Venezia in cui gli anni possono vivere e morire. Possono tradirsi ma non dissolversi. Berto nella Prefazione sottolinea: “Posso dire che in vita mia non avevo mai lavorato tanto per scrivere tanto poco, né mi ero mai così abbandonato al tormentoso piacere di permettere ai pensieri di cercare a lungo le parole più appropriate, e nel cercarsele magari mutano e differentemente si presentano sicché ne vogliono altre, e così via”.
-Io ho visto quel film almeno cinque volte ed è sempre un emozione…
Accade la stessa cosa a me. C’è dentro una storia d’amore e di morte che si consuma. Lei e lui si perdono, si lasciano, si ritrovano. Ma questo ritrovarsi è nel perdersi definitivamente “quando che ti fa soffrire è uno che ami, l’unica possibilità di difesa è amarlo di meno, se ci riesci”. Ma non ci si riesce. Questo è il dramma. La sofferenza percorre tutte le pagine del romanzo. Una sofferenza sottile che attraversa tutta la storia, ma attraversa le due coscienze e un amore che, nonostante tutto, non si è spento. Lui morirà per un male incurabile, ma l’amore continuerà a vivere. Anche nella tragedia l’amore segna la continuità. “Ci saremmo uccisi, se ad un certo momento non te ne fossi andata”. Si diranno. Si ascolta: “Volevo perderti, quando ci siamo divisi, addirittura cancellarti dalla memoria”. L’amore è negli occhi vuoti di lui che cercandola si cerca, mentre la morte è il senso vero di un trasporto. “Ho il senso della morte. Non l’hai avvertito, tu che mi leggi dentro?”. Ma si cercano. Lui dirà in quel suo sentire la morte come avvicinamento alla vita: “Io ti amo senza far l’amore”. Mi pare l’espressione più alta di questo libro nel quale vi campeggiano delicatamente e tristemente i temi di Berto.
-Professore, lei ha parlato di una sorta di continuità tra Anonimo Veneziano e quello che Berto ha scritto dopo?
Anonimo veneziano è il libro di Berto che lega Il male oscuro a La gloria. Accanto all’amore, alla morte c’è lo scadenzare del tempo che è un battito lento, preciso, superbo e che non ha paura di nulla. “La cosa più difficile è farsi credere quando si dice la verità”. La verità! Ecco perché il libro che il protagonista di questo romanzo porta sempre con sé è L’ecclesiasta. Un simbolo, una metafora. Ma ancora un gioco. E in questo gioco, in una Venezia che aspetta l’amore, c’è la morte che rapisce. La fine e il “cominciamento”. Cose che si ritrovano in tutti gli scritti di Berto. Ma è proprio con le parole di Berto che si chiude e si supera il viaggio in una letteratura che è vita. Così: “E’ bene aggrapparsi alla musica o alla poesia, cercare un rapporto con l’arte, non con lei. La morte è un fatto solitario, non si può morire insieme, se non nel senso che tutto e tutti devono morire, e ci si trova in una città dove ciò è più che evidente. Fa un cenno al ragazzo nella cabina, per dirgli che si può cominciare”.Si comincia. Berto usa le metafore del “comincianeto” per segnare anche l’inizio della fine. Musica e arte nella Venezia che ha visto morire un amore. Ma tutta la letteratura di Berto è un viaggiare nella consapevolezza di una vita che è un tempo immenso e indefinibile. Così come in Il male oscuro, in Il cielo è rosso, in La gloria e, appunto, in Anonimo veneziano. La lettera di Berto a Grisi costituisce una chiave di lettura giocata sull’ironia. Dove la malinconia si fa tristezza l’ironia segna il cammino. In fondo tra Berto e Grisi quella malinconia vissuta tra le parole e i silenzi è tutta intrecciata di ironia.
-Che posto occupa secondo lei Berto nella storia della letteratura moderna?
La letteratura del Novecento non può non fare i conti con l’inquieto dell’uomo in rivolta. È un dato certo che nello scavo esistenziale della contemporaneità ci sono le griglie dei miti che si confrontano. Così in Giuseppe Berto. Ma Berto scavando e recuperando una vita, la sua, porta sul teatro dell’esistenza il coinvolgimento tra cadute e straniamento. Questo estraniarsi è un sentirsi e viversi come straniero. Assorbe sostanzialmente tutto il ritmo della inquieta sorte che non è il male oscuro, ma diventa un vizio assurdo. In fondo, Giuseppe Berto vive l’agonia e l’inquieto esistere tra Cesare Pavese e Albert Camus. I personaggi assumono griglie ad intreccio. Si pensi alla forma e alle strutture che mette in campo. Dalla confessione al diario al dialogo. Ma è sempre lo scrittore che cerca una vera uscita di sicurezza dentro la letteratura stessa, perché la letteratura diventa alla fine l’unica possibilità vera, o la vera possibilità, per sconfiggere il Caso. Berto ha vissuto tutte le contraddizioni di un Novecento sconfitto, ma mai perdente con le tradizioni e i suoi conflitti dentro le agonie, che, per uscire dalla possibile morte, il personaggio e l’uomo vivono la rivolta. Berto è realmente un uomo in rivolta come lo è stato Camus. Entrambi appartenenti ad una stessa generazione il primo nato nel 1914 e il secondo nel 1913. Uomini che hanno fatto della rivolta una chiara metafisica dell’anima e della loro confessione un genere letterario (Zambrano).
-Cosa sa lei dell’amicizia tra Grisi e Berto?
I suoi legami con Giuseppe Berto furono importanti, così come lo furono con Ignazio Silone e con un filosofo come Ugo Spirito. Di Berto ecco cosa ricorda Grisi: “Ero amico di Berto. Ci incontravamo spesso. Si parlava di tutto. Ma non si approfondiva nessun problema. Berto aveva sempre paura di entrare nella vita. Era un groviglio di contraddizioni. Trovata una verità la metteva subito in dubbio. Ma soffriva. La sua angoscia era quella di chi è destinato a navigare sempre. Mai un porto dove fermarsi. I suoi amori vivono intensamente, prima. Irrimediabilmente finiti, dopo. Eppure, credeva nell’amore. Diceva che l’amore è un sentimento confuso perché da una parte è ‘divinamente eccelso’ (sono sue parole) e dall’altra affonda le radici nell’oscurità del sesso. E soffriva perché si sentiva incapace di conciliare. Di Giuseppe Berto Francesco Grisi sottolineava che Berto fu: “Un seminatore di dubbi e di rimorsi. Ma anche uno scrittore che fa nascere speranza. Viveva la grande solitudine degli impazienti. Amava la vita con tenerezza…Parlava di D’Annunzio come un modello…Un amico indimenticabile. Uno scrittore che resta” (In un’intervista ad un anno dalla morte di Berto, 1978). (Pino Nano)
“Estate a casa Berto”
“Estate a casa Berto” significa il racconto delle notti magiche di Capo Vaticano, all’insegna della cultura e dell’arte e soprattutto all’insegna della letteratura italiana che vede in Giuseppe Berto uno dei suoi protagonisti assoluti e di primo piano. Quattro serate, quindici ospiti tra giornalisti, scrittori, registi, attori e musicisti, e una comunità di curiosi e appassionati che, ancora una volta, si è ritrovata nel cuore di Capo Vaticano per celebrare il ricordo e l’opera di Giuseppe Berto, Bepi per amici e familiari. Dire una festa è dire poco, perché in realtà Antonia Berto ha fatto di queste notti calabresi, sulla rocca del Capo, un vero e proprio festival moderno, tra i più esclusivi di quanto non si faccia oggi in Italia. Una sorta di Capalbio di “casa nostra”, ma con una differenza sostanziale, perché qui siamo nel giardino più bello del mediterraneo e a ridosso del mare più trasparente del mondo. Venite a vederlo se non ci credete.
“Il festival rispecchia la vita di Berto. Lui era veneto, viveva a Roma e poi si lasciava ammaliare dalla Calabria. Estate a Casa Berto è come era lui: un pizzico di nord, una spruzzata di Italia centrale, e immancabili portate calabresi. Dopo dieci anni -sorride Antonia, che qui veniva da ragazza e che qui ha poi ritrovato i sapori dei suoi viaggi in Calabria- qualcuno si è accorto di noi ma non siamo quelli che chiedono piuttosto siamo quelli ai quali viene chiesto. Non abbiamo mai pensato di fare un evento con delle rigide economie; se c’è chi aiuta è il benvenuto, altrimenti ce la caviamo in famiglia. Forse questo è il festival meno sponsorizzato tra i mille festival estivi del nostro paese, ma non abbiamo neanche l’atteggiamento mecenatesco. Abbiamo un’economia domestica e ce la caviamo. Offriamo bellezza in cambio di un atto artistico; la formula funziona da dieci anni e forse potrebbe funzionare ancora per altri dieci”.
Un festival di una forza mediatica pari a pochi altri in Italia, se non altro per questa location così suggestiva e così affascinante, unica al mondo, un festival interamente ideato e diretto da Antonia Berto, e Marco Mottolese, che dal 5 all’8 settembre ha animato il giardino della casa calabrese di Berto con incontri letterari, dibattiti di attualità, concerti, cineforum e, per la prima volta, una mostra fotografica.
“Al nostro Festival vince la qualità. Non serve essere seguace di Berto, peraltro dallo stile inimitabile, per entrare tra i finalisti. Mediamente arrivano sessanta o settanta opere inviate dai principali editori italiani ma anche dai più piccoli, alcuni dei quali sconosciuti ai più. La giuria viene nominata collegialmente tra tutti coloro vicini alle due Associazioni legate a Berto: quella del Premio e quella del Festival. Con un privilegio: chi va in finale lo decide la giuria, sì, ma essendo il Premio alternato, cioè un anno si svolge a Mogliano Veneto dove Berto è nato e un anno a Capo Vaticano dove ha vissuto e riposa, il premio gode di questa peculiare alternanza che allontana qualsiasi capannello, lobby o giochi sottostanti. Chi vince, vince perchè il libro è buono”.
A fare da filo conduttore alle quattro serate che hanno celebrato i dieci anni della nascita del Family Festival, è stata la Calabria, in tutte le sue complesse sfaccettature e contraddizioni, che ha tenuto vivo il fuoco del dibattito sulla contemporaneità di Berto, tracciando geografie antropologiche, storiche e culturali.
Dal documentario di Domenico Lagano e la mostra di Angelo Maggio che hanno indagato il tema del “non-finito” calabrese tra ritualità, aspettative deluse e società in mutamento, all’inchiesta Rai di Virgilio Sabel del 1958 che offre uno sguardo sui problemi radicati nel Sud Italia e gli effetti del ridimensionamento voluti dal governo Italia all’indomani del boom economico. Un percorso che si è concluso nella serata finale del Festival, con la presentazione della riedizione de “La Fantarca” (Neri Pozza editore) – testo distopico e visionario di Berto del 1966 che affronta con sagacia e ironia il tema della questione meridionale – presentata, tra gli altri, dallo scrittore Diego De Silva, che ne ha firmato la prefazione, e da Pierfranco Bruni, Presidente della Commissione Cultura del Ministero.
“È sempre una grande emozione tornare qui, in Calabria, nella terra di Berto, e riscoprire altri aspetti di uno scrittore che costituisce un punto di riferimento di tutta la letteratura del Novecento – ha commentato Pierfranco Bruni -. Credo che quest’opera di Berto – La Fantarca – abbia segnato un tempo epocale per il Mezzogiorno e la Calabria. Lo scrittore gioca ironicamente, con una Calabria che parte e si trova in orbita, se vogliamo usare questo termine, vuol dire che Berto aveva ben capito il ruolo che poteva avere la Calabria, e che sta giocando oggi questa regione, a livello europeo sul piano culturale”.(p.n.)
10 anni di Premi
Grande partecipazione alla cerimonia della 31ma edizione del Premio Letterario Giuseppe Berto, ponte culturale tra Veneto e Calabria nel suo alternarsi tra Mogliano Veneto e Ricadi, aggiudicato quest’anno da “Inventario di quel che resta quando la foresta brucia” (TerraRossa) di Michele Ruol, in una serata evento presentata dal giornalista Giancarlo Loquenzi alla presenza del Presidente di Giuria Emanuele Trevi e con le letture dell’attrice Anna Ammirati.
«Qui a Capo Vaticano, nel Festival e nel Premio dedicato a Giuseppe Berto c’è veramente qualcosa di speciale – ha commentato Loquenzi, tra i giornalisti “resident” che hanno animato gli incontri del festival -. C’è una sensazione di famiglia che si ritrova e che ogni volta trova qualcosa di nuovo da condividere e da raccontare».
Molto apprezzati anche gli incontri che hanno visto protagonisti la lectio magistralis su Darwin dell’etologo e accademico dei Lincei Enrico Alleva, e il dibattito con il giornalista Massimo Sideri sul rapporto tra Italo Calvino e l’Intelligenza Artificiale. Spazio anche all’intrattenimento con l’esibizione tra musica e parole di Naip e il viaggio musicale nel mondo fiabesco degli Isobel Kara che per la prima volta si sono esibiti in Calabria.
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