Don Italo Calabrò, Il Santo dell’Antimafia

Pino Nano

La storia di don Italo Calabrò, sacerdote reggino che oggi avrebbe compiuto i suoi primi 98 anni di vita, è una delle storie più belle e più esaltanti della Chiesa calabrese.

Oggi per la sua città natale, che è Reggio Calabria, è una giornata davvero solenne. Perché la città proprio oggi, domenica 7 settembre 2023, festeggia due cose insieme. Primo, la Festa della Madonna della Consolazione con la sua tradizionale processione che dall’eremo scende lungo il corso principale della città per poi fermarsi davanti al palazzo municipale. Secondo, perché oggi parte ufficialmente il processo di beatificazione di don Italo Calabrò e che potrebbe molto presto regalare alla storia della città di Reggio il suo primo vero santo.

I processi di beatificazione a cui Santa Romana Chiesa ci ha abituati, questo ormai lo sanno anche i bambini, sono di solito lunghissimi, a volte estremamente estenuanti, eccessivi, ma questo di don Italo Calabrò è forse uno dei casi più eclatanti in Vaticano sotto la lente di ingradimento del Dicastero delle Cause dei Santi, per via delle opere infinite, reali, fisiche, visibili a occhio nudo, che don Italo dopo la sua morte lascia al mondo esterno come suo testamento spirituale.

Ma al di là delle opere fisiche, parliamo di asili, di scuole, di orfanotrofi, di istituti di assistenza, di centri di aggregazione sociale, di gruppi di preghiera e di testimonianze vive come quella per esempio di don Luigi Ciotti che grazie a lui venne in Calabria per fondare la sua prima cellula operativa di Libera, don Italo Calabrò fu invece il vero prete antesignano della lotta alla ndrangheta.

Una sorta di don Pino Puglisi di casa nostra, ma avendo io studiato a lungo la storia di don Puglisi, posso testimoniare senza ombra di dubbio che il ruolo svolto da don Italo Calabro in Calabria fu molto, ma molto più sostanziale dell’impegno nobilissimo e sacrosanto del sacerdote palermitano. La differenza tra i due è che don Puglisi venne ucciso da un killer di Cosa Nostra ancora giovane mentre stava per rientrare una sera a casa, mentre don Italo morì improvvisamente per via di un cancro che non gli diede un solo attimo di tregua e la ndrangheta non ebbe forse il tempo per ucciderlo.

Don Italo Calabrò insieme a don Salvatore Nunnnari e la madre del vecchio Arcivescovo

Don Italo era davvero un prete scomodo per quegli anni in Calabria.

Erano gli anni ‘50-’60, in una regione e una in città, Reggio Calabria, dilaniata dalle guerre di mafia che alla fine seminarono mille morti in dieci anni, anni in cui don Italo forte del suo carisma e della toga che indossava si erse a paladino dell’antimafia, in una terra dove nessuno mai prima di lui aveva osato sfidare la cupola della Ndrangheta.

 “Non uccidere: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! …lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.

Ricordate l’appello forte e iconico che Papa Giovanni Paolo Secondo il 9 maggio del 1993 lanciò contro la Mafia dalla grande spianata della Valle dei Templi di Agrigento?

Per la prima volta un Papa usa in pubblico il termine “mafia”, ma don Italo lo aveva già fatto decine di altre volte nella sua parrocchia di Sambatello.

pino nano racconta don italo calabrò

Per ricostruire questa sua “ostinazione caratteriale” nel rivolgersi dall’altare della sua chiesa ai mafiosi come a delle “bestie”, cerchiamo allora uno dei suoi amici più cari, che era don Salvatore Nunnari, reggino come lui, Arcivescovo emerito di Cosenza, ma prima ancora Vescovo nella diocesi di Nusco in Campania, e ne ricaviamo un’immagine fiera e altera di un apostolo e di un testimone del suo tempo che non ebbe mai una sola esitazione nel gridare contro la violenza delle cosche reggine.

Mi chiedete di parlarvi di don Italo, e non potete farmi regalo più bello di questo. Italo era un prete coraggioso, un prete senza paura, un prete come pochi. Italo era l’esatto contrario di quella che voi cronisti per anni, e avolte forse anche ingiustamente, avete chiamato la “Chiesa del silenzio”. Don Italo era temuto dalla ndrangheta come può esserlo oggi un magistrato coraggioso come Nicola Gratteri, perché Italo era davvero un sacerdote libero, forte delle sue idee, caratterialmente irriverente verso il potere, fuori dal sistema, alla ricerca eterna non di un compromesso ma di risposte e di certezze che dessero serenità alla gente comune che ogni giorno bussava alla sua porta”.

-Leggo che riceveva migliaia di persone, che non si fermava mai, neanche un momento, che la sua giornata di impegno pastorale incominciava all’alba e finiva a notte tarda…

“Alla sua porta hanno bussato migliaia e migliaia di ragazzi senza futuro e in cerca di aiuto. Don Italo era un missionario vero, un uomo di fede che incantava chiunque lo avvicinasse, e ricordo l’affetto e l’ammirazione che un grande Papa come Giovanni Paolo Secondo gli manifestava per tutto quello che don Italo rappresentava in questa terra di diseredati e disgraziati. Che potessero colmare i dubbi e le paure dei più deboli”.

-Che mi dice del rapporto che don Italo aveva con la realtà di Sambatello?

“Don Italo era la gente di Sambatello, don Italo era tutti loro insieme, e quando dall’altare fece la sua prima omelia, la gente di Sambatello capi che qualcosa in paese stava per cambiare, e che comunque qualcosa sarebbe cambiata. Nessuno forse lo ha mai saputo, ma i documenti conclusivi della Conferenza Episcopale Calabra sulla mafia o, meglio, di denuncia della Ndrangheta, traevano origine proprio dalle sue omelie, dalle sue riflessioni, dalle sue indicazioni, dai suoi sermoni. Italo non finiva mai di meravigliarci, era un uomo che non abbassava mai la guardia, e nessuno meglio di lui conosceva la ndrangheta e il mondo che ruotava attorno ad alcuni boss storici della sua epoca. Del resto, aveva accettato di predicare il Vangelo e combattere ogni forma di sopruso in quella che era la culla dorata di don Mico Tripodo, il capo dei capi della ndrangheta, compare d’anello di un allora sconosciuto Totò Riina, ucciso poi nell’estate del 1986 dopo essere stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Poggioreale, a Napoli, e a cui funerali parteciparono i grandi rappresentanti di Cosa Nostra e della mano nera dagli Stati Uniti d’America”.

Prima di lasciare la sua casa di Archi a Reggio Calabria, il vecchio Arcivescovo mi regala un libro che mi sarà utilissimo per completare questa storia di don Italo, il titolo è “Quando un uomo vale Don Italo Calabrò profeta di speranza”, di Antonino Iannò, con la Prefazione dell’Arcivescoco Emerito di Reggio Calabria Giuseppe Fiorini Morosini (Edito da Rubettino 2015) e da cui ho estrapolato alcuni passi fondamentali del “Vangelo antimafia” di don Italo. Ma è’ quanto basta per credere davvero che il sacerdote di Sambatello possa diventare Santo molto prima di quanto non si immagini proprio per questo suo disprezzo plateale e dichiarato contro la Ndrangheta che gli si muoveva attorno.

Don Italo Calabrò accanto a Papa Giovanni Paolo SAecondo che saluta il chirurgo che lo aveva operato prof. Francesco Crucitti

 Corrado Calabrò “…Italo era mio fratello…”

Il Presidente Corrado Calabrò accanto al Presidente della Repubblica Ciampi

Giurista, scrittore e poeta italiano di altissimo spessore, Presidente dell’Agcom dal 2005 al 2012, Corrado Calabrò, fratello di don Italo Calabrò, è stato nei fatti uno dei Grand Commis della storia della Repubblica Italiana, un manager di Stato a cui il Paese deve enorme riconoscenza. Nasce a Reggio Calabria il 13 gennaio 1935 e oggi viene considerato uno degli intellettuali italiani che ha ha avuto il grande merito di aver diffuso la poesia in ambienti e mondi in passato assai lontani dalla poesia e dalla letteratura, e questo non solo in Italia. Accanto agli incarichi ufficiali in magistratura, Corrado Calabrò ha ricoperto numerosi incarichi di altissimo prestigio per la vita politica del Paese. Dal 1963 al 1968 ha seguito Aldo Moro alla presidenza del Consiglio dei ministri, guidando la segreteria tecnico-giuridica di Palazzo Chigi. Negli anni successivi è stato capo di gabinetto dei ministeri del Bilancio, del Mezzogiorno, della Sanità, dell’Industria, dell’Agricoltura, della Marina mercantile, delle Poste e telecomunicazioni, della Pubblica istruzione e dell’università, delle Politiche comunitarie e delle Riforme istituzionali. Consigliere giuridico del Ministro degli Esteri dal 1969 al 1972. Capo dell’Ufficio legislativo dei Ministeri del Bilancio e del Tesoro. Le sue prime poesie sono state pubblicate nel 1960 dall’editore Guanda di Parma col titolo Prima attesa.Sono venuti poi altri ventitré volumi, tra cui Rosso d’Alicudi, pubblicato nel 1992 da Mondadori, Una vita per il suo verso, Oscar Mondadori, 2002, La stella promessa, nella collezione “Lo Specchio” di Mondadori, 2009, Quinta Dimensione, Oscar Mondadori 2018, che è la più completa opera poetica di Calabrò.Nel 2013 fece discutere una sua presunta candidatura al premio Nobel per la Letteratura, ripresa da alcuni quotidiani. In realtà fu invitato alla 13ª “Settimana della Lingua Italiana nel Mondo” in Svezia, e, in quel contesto, presentò le sue ultime traduzioni in svedese, Den utvalda stjärnan e Vid slocnad mǻne, alla presenza di alcuni accademici. Per la sua opera letteraria, l’università Mechnikov di Odessa, l’università Vest Din di Timișoara e l’università statale di Mariupol gli hanno conferito, rispettivamente nel 1997, nel 2000 e nel 2015, la laurea honoris causa. Nel 2016 l’università Lusófona di Lisbona gli ha attribuito il Riconoscimento Damião de Góis.[1]. Al suo libro spagnolo, Acuérdate de olvidarla, è stato conferito il Premio Internacional de Literatura “Gustavo Adolfo Bécquer” 2015.

Il Presidente Corrado Calabrò

-Presidente Calabrò me lo ricorda suo fratello Italo?

Don Italo, era una persona di un’energia, anche fisica, straordinaria. Ricordo che da ragazzo faceva il tiro alla fune da solo contro i quattro cugini Priolo. A scuola era bravissimo. Bravissimo davvero. Saltava le classi, finché un anno, all’improvviso, disse che voleva entrare in seminario per diventare sacerdote”.

-La famiglia come la prese?

Per mio padre fu un colpo. Rimase costernato, perché prefigurava per lui una brillante carriera professionale, come il suo straordinario successo negli studi lasciava prevedere. Mia madre invece lo appoggiava. Alla fine, vinse Italo. Entrò in seminario, ma ad una condizione che gli impose mio padre: di concludere il suo ciclo scolastico prendendo la maturità, sia pure da esterno. E Italo la prese, con ottimi voti, al liceo- ginnasio Tommaso Campanella di Reggio Calabria dove i professori lo ricordavano come eccellente studente. Dopo aver preso la maturità tornò in seminario, il Seminario pontificio Pio XI, per coronare il suo sogno”.

-Immagino sia stata una scelta difficile da digerire alla fine?

Pensi che mio zio Tino, Colonnello di cavalleria, commentò quella sua scelta con amaro rincrescimento: “Tu che potevi diventare il primo avvocato di Reggio finirai con lo spazzare la polvere delle strade con la tonaca”.

-In realtà come andò a finire Presidente?

“Che Don Italo divenne sacerdote giovanissimo. E subito dopo fu anche canonico e monsignore”.

-Presidente mi racconta per favore la vera storia di suo fratello “mancato” vescovo, e di cui le va molto fiero?

Me la raccontò più volte il cardinale Camillo Ruini. Per due volte di seguito dal Vaticano lo chiamarono perché volevano che diventasse Vescovo, ma Italo rinuncio sia la prima che la seconda volta. E rinunciò nonostante le mille insistenze dei suoi diretti superiori. Disse che non intendeva neanche per un momento lasciare i suoi ragazzi soli, e tutto quello che attorno all’Agape aveva costruito. Voleva continuare a fare il prete di campagna come aveva fatto per tutta la vita. E alla fine ha vinto ancora una volta lui”.

-Qual è stato, nel rapporto che lei aveva con suo fratello, il giorno più triste della sua vita Presidente?

Il giorno in cui venne rivelato il suo male. Italo ci ha lasciati che non aveva ancora 65 anni. Il suo male si rivelò all’improvviso senza che nessuno di noi, io più degli altri, fossimo preparati a quel momento. Un male inesorabile se lo portò via in un baleno”.

-Cancro?

Ricordo solo che aveva un colorito giallastro in faccia. Lo convinsi a venire da me a Roma, e lo portai da un mio grande amico, il prof. Raffaello Cortesini, un grande chirurgo di allora, un maestro della chirurgia più avanzata. Quel giorno con Italo eravamo io, mia moglie e mia figlia Maria Teresa, che allora era ancora una ragazza. Finita la visita il professore Cortesini ci venne incontro con un volto grave scuro, tirato, l’espressione un po’ elusiva. Italo troncò gli indugi: “Professore mi dica chiaramente, la prego, quanto tempo mi resta da vivere? Ho da fare molte cose prima di andarmene, e ho bisogno di capire quanto tempo ancora mi rimane. Ho le mie opere da sistemare”.

-E Cortesini?

“Continuava a tacere, come se non avesse colto il senso della domanda o come se volesse evitare di dare a Italo una risposta”.

-E suo fratello?

“Ripeté la domanda nel modo più esplicito: Professore, mi restano anni? Mesi? Settimane?”.

-Che risposta ottenne don Italo?

“Cortesini lo fissò negli occhi e, tirando su a stento le parole, disse: “Credo più probabile quest’ultima ipotesi”. Mia figlia Maria Teresa scoppiò in lacrime”.

-E suo fratello?

“Mi pare di vederlo ancora. Abbassò gli occhi, chiuse per un momento le palpebre, poi riaprì gli occhi e con sguardo fermo disse “Sia fatta la volontà di Dio”.

-Cosa accadde dopo quel consulto medico?

“I suoi ultimi 45 giorni di vita, perché poi Italo se ne andò davvero, furono un esempio straordinario di forza d’animo e di fede. Diceva “Quando si è malati si è davvero poveri di tutto ma proprio allora si sente più vicina la presenza di Dio”.

-Come trascorse questa sua ultima parentesi terrena?

“Ricevendo e incontrando tantissima gente ancora. Ricordo che i giovani sacerdoti di Reggio e le suore della città e del circondario continuavano a venire a trovarlo, volevano confessarsi con lui, era come se temessero di perdere per sempre la guida più importante della loro vita, e Italo nonostante i dolori fisici, nonostante non avesse più la forza di alzarsi o di muoversi, continuava ad ascoltarli, a dare loro i consigli richiesti, a prepararli a camminare da soli. Una guida e un carisma senza precedenti, mi creda.

-Presidente, posso chiederle come ricorda lei gli ultimi istanti della vita di don Italo?

“Don Italo è morto sereno. Non ha mai perso la sua serenità di fondo. Aveva lo sguardo disteso, come se la morte non riguardasse lui, e come se la fine di tutto fosse soltanto un evento secondario. La sua fede era divenuta ancora più forte. Potessimo tutti avere la sua stessa forza nel nostro giorno estremo!

-Quale fu il lascito più bello di don Italo ai suoi ragazzi, ai suoi giovani studenti?

“Quando lui insegnava all’Istituto Industriale – era un’epoca in cui imperava il detto “privato è bello” e l’egoismo dominava – fondò questa comunità di giovani, l’Agape, che è l’associazione che continua ancora oggi a ricordare il suo impegno pastorale e le opere meravigliose di carità e di altruismo. Giovani studenti si misero insieme per dare un senso alla propria vita attraverso opere di assistenza e di solidarietà verso gli altri, seguendo e inseguendo le orme del loro maestro, del loro padre spirituale, dell’uomo che aveva indicato loro la strada da percorrere per il futuro. E ad ognuno di questi ragazzi Italo ha lasciato come insegnamento eterno della sua vita un concetto preciso “Amatevi gli uni e gli altri. Amatevi di un amore forte. E amate gli altri come amate voi stessi. Nessuno escluso mai.” Era questo il motto di don Italo”.

-Presidente, si ricorda il giorno dei funerali?

“Alla celebrazione del funerale di Don Italo hanno partecipato, concelebrando, dozzine e dozzine di sacerdoti. La Chiesa reggina fece cerchio intorno al suo feretro”.

E una folla enorme era dentro e fuori la cattedrale.

Ricordo che Piazza Duomo e le vie circostanti erano pieni di gente che era corsa a porgergli l’estremo saluto. E ricordo ancora che quando la bara passava per le vie della città centinaia e centinaia di persone, anche più anziane di lui, assiepate sui marciapiedi, si inginocchiavano e lo chiamavano “Padre”. L’ultimo miglio di Padre Italo, l’ultimo abbraccio corale della sua città e del suo popolo. Era come quando arriva in processione la vara della Madonna!”.

-Dicono di lui che avesse già da giovane un senso dell’ironia molto spiccato?

“Una volta ricordo che all’aeroporto uno dei suoi giovani gli chiese “Ma don Italo perché vi fate chiamare don Italo se siete Monsignore? E mio fratello rispose “Ma tu sai che differenza passa tra un sacerdote e un monsignore? Nessuna. Ma i Monsignori non lo sanno”.

-So che lei va fiero di suo fratello e che lo ha ammirato e seguito per tutta la vita?

“Vede, don Italo fu il primo a convincere la Chiesa calabrese in Conferenza Episcopale a prendere posizione contro la mafia, e visse tutta questa stagione in prima persona e in presa diretta. Non solo e non tanto io quanto i giovani delle sue associazioni, la Chiesa reggina, la cittadinanza devono serbarne intenso il ricordo”.

-Fu quella una stagione di grande tensione per la sua famiglia?

“La verità è che don Italo non si limitò soltanto a quella famosa dichiarazione con cui la Chiesa reggina si schierò duramente e soprattutto per la prima volta contro la mafia di quel tempo, ma mio fratello fece molto di più”.

-Può raccontarcelo?

“Ricordo che c’era un paesino a due passi da Reggio, San Giovanni di Sambatello, dove non voleva andare nessuno a fare il parroco perché era un paese dominato dalla ndrangheta. Ebbene, don Italo, che era allora già Vicario arcivescovile ci andò lui, con estrema risolutezza. E quel paese alla fine finì per amare lui in maniera incondizionata e inimmaginabile”.

-Riesce qualche volta ad andare a trovarlo?

“Don Italo oggi riposa a San Giovanni di Sambatello, la sua tomba è stata sistemata nel cimitero del paese, e io ogni volta che vado a Reggio vado a trovarlo per portargli un mazzo di fiori, ma non trovo mai un posto dove sistemare i miei fiori tanti sono i fiori e le piante che circondano la sua tomba. E’ segno del grande amore e della grande ammirazione che don Italo ha radicato nella gente del luogo. E questo accade in qualsiasi giorno e in qualsiasi stagione dell’anno; perché lui, è vero, combatteva la mafia, ma nello stesso tempo aiutava i ragazzi a crescere, assisteva le famiglie del paese, aiutava tutti quelli che bussavano alla sua porta, riceveva chiunque, e non lasciava per strada mai nessuno, e questo la gente del luogo non lo ha mai dimenticato. Ecco perché la gente di San Giovanni continua ad adorare don Italo”.

-Che carattere aveva suo fratello?

“Di una suadenza senza pari, ma era anche duro quando occorreva. Ricordo che a Natale allora, a San Giovanni di Sambatello, c’era l’usanza che il parroco portasse fuori sulla piazza il bambinello, e la gente si riversava davanti la Chiesa per baciare i piedi della statuina”.

-Cosa c’entra tutto questo con il suo carattere?

“Se mi dà il tempo glielo chiarisco. In quella occasione anche i latitanti quella notte si presentavano sulla piazza per celebrare questo rito, ed era un rito che si ripeteva puntualmente ogni anno. Bene, un anno, qualche giorno prima era stato ucciso in un agguato un bambino insieme a suo padre, e Don Italo si rifiutò di portare fuori dalla chiesa il bambinello per questa sorta di benedizione corale, e che i paesani consideravano invece fondamentale per un buon auspicio”.

-Parliamo di un giorno di lutto cittadino? Di una tragedia collettiva?

“Si certo, ma la gente del paese allora considerava la benedizione del Bambinello un buon augurio per l’anno che sarebbe venuto. E allora ricordo che si presentarono in sacrestia due giovani che si rivolsero a don Italo e gli dissero “Padre, adesso bisogna che voi portiate fuori il bambinello”.

-Vorrà dire che lo minacciarono?

“Mi pare abbastanza chiaro, non crede? Ma don Italo senza nessuna esitazione e con la fermezza che sapeva avere nei momenti più difficili della sua vita, ma anche nei momenti più delicati, rispose con lo stesso tono loro “Quest’anno no! Non se ne parla neanche. Quest’anno qui qualcuno ha ucciso un bambino, e quindi non farò nessuna cerimonia di benedizione del bambinello”.

-Come reagirono i due delinquenti?

“I due giovani insistono e ripetono a Don Italo la richiesta: “Padre, forse non avete inteso bene. Dovete prendere il bambinello e portarlo fuori per il rito di sempre”. E di fronte all’ennesimo rifiuto netto di Don Italo glielo chiesero ancora per la terza volta. Poi scostarono la giacca e mostrarono le pistole”.

-Immagino che alla fine lo costrinsero a portare il bambinello fuori dalla Chiesa?

“Ma vorrà mica scherzare? Nessuno di loro avrebbe mai potuto immaginare quale sarebbe stata la reazione di don Italo, che al giovane più arrogante tra i due, mollò un ceffone in faccia che quasi lo stordì. Confusi e frastornati i due giovani uscirono dalla sacrestia parola, e quell’anno la festa del Bambinello non si celebrò, così come don Italo aveva deciso”.

-Oggi suo fratello lascia al mondo moderno mille opere compiute?

“Non lo dico io, questo lo dicono gli altri. Don Italo è stato co-fondatore della Caritas insieme a mons. Nervo, e tanto ha fatto in opere di assistenza. Un lavoro davvero incredibile. Ma un apporto importante del lavoro da lui svolto alla Caritas è stato quello di introdurre il concetto di condivisione. Lui diceva “Non bisogna fare la carità da distante a distante, ma fare la carità significa accettare, condividere anche la situazione dell’assistito. Mons. Nervo ricordava sempre l’importanza di questo concetto a cui la Caritas poi si è conformata”.

-Da sacerdote dicono oggi le carte Vaticane don Italo fu anche un antesignano…

“Come sempre lui non solo diceva, ma faceva. In modo assolutamente conforme alla sua missione pastorale, istituì un sacco di case di accoglienza. Tutti quelli che avevano bisogno di assistenza, gente sola, abbandonata, ammalati fisici, ammalati psichici, handicappati, venivano assistiti in queste case di accoglienza, che erano in molti casi delle normali famiglie del tempo, soprattutto famiglie singole che si prendevano cura di ogni povero afflitto. In caso di gruppi più numerosi, allora c’erano le suore che li curavano e li assistevano. Pensi che c’era una struttura che già a quei tempi assisteva curava e dava supporto psicologico ai malati di AIDS. Tra le prime in Italia”.

-Un’esperienza anche dura, Presidente?

“Guardi, ricordo che la domenica, Italo andava a Santa Domenica, vicino Reggio, proprio per pranzare con loro, con questi assistiti. Poi tornava a casa felice, e non faceva altro che ripeterci “E’ bello assistere chi soffre, ma è bello anche pranzare con loro, stare accanto a loro, condividere la loro condizione”.

-Le parlava mai suo fratello di momenti difficili?

“La vita di tutti noi ha alti e bassi. Lì a Villa San Giuseppe le suore un giorno si lamentarono con lui perché questi assistiti malgrado loro si prodigassero con tanto sacrificio anziché essere grati per quello che facevano ricambiavano le attenzioni delle suore con insulti, imprecazioni e magari bestemmie. Don Italo sa cosa rispose? “Ma che dite? Non avete capito? Quali sono le categorie degli angeli? Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati? Ve ne siete dimenticata una, la categoria degli Angeli Traduttori. Ogni imprecazione, ogni bestemmia che questi malati, che hanno tanto bisogno di amore vi rivolgono contro, gli angeli traduttori la traducono in lode a Dio, e in benedizione. Questo era don Italo”.

-È vero che ci fu anche una fase in cui don Italo si occupò di giovani scapestrati?

“Ricordo bene che il tribunale per i minori gli affidava tutti i minori che avevano commesso qualche piccolo crimine, e ricordo che di solito a Natale o a Pasqua, insomma le feste comandate della famiglia, gran parte di loro tornavano per qualche giorno a casa. Ma tra di loro c’èra sempre qualcuno che a casa non aveva nessuno, nessuno insomma che lo aspettasse, e allora don Italo li portava a casa mia, a casa nostra, e mamma mia allungava il tavolo da pranzo, e il più delle volte apparecchiava e preparava tavolate per più di venti persone per volta, con questi ragazzi che per i giorni di festa diventavano nostri parenti diretti”.

-Presidente mi racconta un aneddoto della sua vita accanto a don Italo?

“Certo che glielo racconto. Una sera andando a Reggio Italo mi venne a prendere alla stazione, e prima di andare a casa si fermò davanti ad una pasticceria della città e prese una grande guantiera di paste. Gli dissi “Italo ma siamo due persone sole, tre al massimo, perché tutti questi dolci?”. Lui fece finta di non cogliere la mia domanda, arrivammo a casa e avvertii un grande frastuono dentro. Entriamo e troviamo una casa in subbuglio, in preda a dei ragazzini, quasi tutti minorenni.  Trovai letti a castello in ogni angolo della casa, e allora capii che le paste dolci che Italo aveva preso da portare a casa erano per loro”.

-Gli ha mai chiesto chi fossero realmente questi ragazzi?

“Erano i ragazzi della famosa faida di Polistena, una faida che vedeva contrapposte due famiglie mafiose dell’epoca e che aveva seminato lutti e violenze di ogni genere. Per evitare che anche i bambini diventassero oggetto della vendetta, Italo li andava a prendere, li recuperava per strada, e li portava transitoriamente a casa da noi cercando intanto  di istradarli su una strada completamente diversa da quella che avevano invece deciso di fargli percorrere le loro famiglie  trovando loro una destinazione e un’occupazione in altre città, lontane da Polistena o da Reggio stesso, e a volte in altri paesi, all’estero, affidandoli ad amici delle varie Little Italy sparse nel mondo. Un lavoro incredibile, che nessuno avrebbe mai immaginato possibile”.

-Lei ebbe mai modo di verificare i frutti di quell’impegno pastorale senza fine?

“Le racconto questa. Parecchi anni dopo, trovandomi io a Buenos Aires per un incontro con la comunità calabrese, si feve avanti un giovane uomo, mi si parò davanti e mi disse “Ma voi siete il fratello di don Italo Calabrò?”. Sì, sono suo fratello, risposi, e lui allora volle abbracciarmi dicendo: “Io devo la mia vita a don Italo. Devo tutto a lui. È lui che mi ha fatto studiare, è lui che mi ha mandato qui, è lui che mi ha convinto a scegliere questa nuova strada, e qui oggi sono dottore commercialista. Dicendomi queste cose era profondamente commosso”.

-A Reggio si parla ancora di lui…

“Forse lei non lo sa ma un grande Istituto di cura oggi, lì a Reggio, assiste e cura i portatori di handicap. Le parlo di un istituto specializzato, gli ammalati arrivano da ogni parte della regione, ma anche da altre regioni, un centro di assistenza di alto livello professionale, ed è una delle realtà viventi di don Italo, una delle sue tante eredità lasciate alla città di Reggio e alla sua terra”.

-Ma c’è anche don Ciotti che lo adora?

“Don Ciotti, il leader di Libera, ricorda sempre di aver preso ispirazione dal pensiero e dalla esperienza di vita di don Italo. Ha preso esempio da lui e ne ha seguito le indicazioni nel suo impegno di recupero civile e morale dei giovani. Soprattutto nel dare un’opportunità alle vittime del sistema mafioso”.

-Mi racconta invece un lato inedito della vita pastorale di suo fratello?

“Non tutti forse lo sanno, ma don Italo fu anche il primo sacerdote illuminato ad essere vicino ai sacerdoti che lasciavano la tonaca per sposarsi. È una bella cosa, perché il tema è quanto mai attuale e lo era già allora, e Italo ne aveva colto il peso e la responsabilità della Chiesa del tempo”.

-Se oggi lei potesse rivolgere una sola parola a suo fratello cosa gli direbbe?

“C’è una mia poesia che lo ricorda bene. Se vuole la può ritrovare anche nella mia ultima pubblicazione in ordine di tempo, “Quinta dimensione”, il titolo è “Ad eccezione”.

pino nano racconta don italo calabrò

Mafìosi come bestie

-Ecco qui in pillole cosa pensava e cosa diceva in pubblico don Italo Calabrò contro la ‘Ndrangheta, una anatema dietro l’altro, dall’alto dell’altare della sua storica parrocchia di Sambatello-.

“Siamo qui per condannare il male e non lo facciamo in termini generici che molte volte, come gli antichi filosofi ci ammonivano, non hanno aderenza con la realtà contingente che si sta vivendo. Siamo qui per condannare questa sera ogni male, ma in modo particolare la mafia, la nostra mafia, o ’ndrangheta che dir si voglia, della nostra Calabria

“Nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare–giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità–sapendo che proprio così viviamo veramente la vita

“Anche questo flagello della mafia deve essere e sarà debellato se noi non con la forza della violenza, ma con la forza della non violenza, con la forza che deriva dalla giustizia, in un clima di libertà e di pace, noi affermiamo i valori supremi, valori umani e religiosi insieme, quei valori che la fede autentica ci indica, che la nostra coscienza umana proclama

“La tentazione terribile di molti giovani, spesso dai sedici anni in su, lascia sconcertati; chi di noi opera nel sociale sa quanti giovani abbiamo seguito con preoccupazione e per non aver potuto reperire un posto di lavoro sono finiti nella mafia. Io personalmente conosco le storie di diverse centinaia di ragazzi che ho visto precipitare per disoccupazione o per non aver avuto una formazione adeguata

“Cosa c’entra l’affidamento con la mafia? Se ognuno di noi è affidato ad una famiglia che lo segue e lo sostiene e completa l’opera della scuola, ogni minore non è più a rischio per il 90 o 100% ma affronta un rischio minimo (il rischio, in realtà, non scompare per nessuno…). Il rischio è invece enorme per chi nella sua infanzia non ha avuto esperienza di accoglienza

“Con quel regno del male e delle tenebre noi non vogliamo confonderci, vogliamo isolare questa parte infetta della nostra realtà calabrese: la Calabria non può e non deve essere identificata con un gruppo o un manipolo o una legione che sia, di gente che ha come finalità la prepotenza, la violenza e la morte; noi siamo per la giustizia, per la libertà, per la pace, per la vita, siamo per il rispetto di ogni persona, ma soprattutto intendiamo difendere la vita dei più piccoli, dei più deboli, dei più poveri, dei più emarginati, di coloro che non hanno voce

“Perché i giovani delinquono? Non ultima causa della delinquenza giovanile mi pare vada identificata nel rifiuto o nell’insufficiente accettazione che i minori […] subiscono da parte delle agenzie educative, della scuola che spesso non riesce a integrarli, degli altri ambiti sociali (associazioni sportive ecc.) e perfino dei movimenti e gruppi ecclesiali che per salvaguardare i più (il discorso della pera marcia) allontanano i più irrequieti e irriducibili (quanto diverso il discorso del Vangelo: lasciare le 99 pecorelle al sicuro e mettersi alla ricerca dell’unica smarrita)

Pino Nano Calabria Live

“Qui dentro sicuramente ci sono se non gli assassini almeno i mandanti di questi delitti. Quale onore avete voi, che vi considerate uomini d’onore? Io non vi chiedo di non essere più mafiosi, ma almeno consentite ai vostri figli di uscire per sempre da questo sentiero di morte”. Mentre il corteo si muove verso il cimitero, sette colpi di pistola vengono esplosi dal paese. “Ecco il segnale–mormora don Italo a chi gli è a fianco–questo è il destino che aspetta chiunque tradisca la mafia”.

“I primi a maledire la mafia e il giorno in cui sono entrati sono la gran parte dei mafiosi, perché sanno che una volta presa quella strada di morte per gli altri è strada di morte anche per loro, purtroppo

“Se diamo lavoro i giovani rinunceranno al fascino del potere mafioso, al senso aberrante dell’onore, ai facili guadagni, perché saranno capaci di camminare con la schiena dorsale diritta. Giovani che quando guardano in faccia me prete o l’onorevole comunista o socialista o democristiano, lo guardano e lo salutano da uomo a uomo, non da persona che spera attraverso questa amicizia di poter sistemare il figlio, la figlia o i nipoti. Noi ci portiamo dentro anche questa componente di servilismo da cui dobbiamo liberarci per essere veramente, con dignità, calabresi e uomini di vero onore, che non è quello che uccide. Il primo onore è quello di sapersi imporre perché i diritti siano riconosciuti, di sapere lottare democraticamente e di sapersi ritrovare e integrare con gli altri7

“Recentemente sono stato chiamato in un altro centro della nostra diocesi per il funerale di un uomo ucciso, non so se per vendetta ma certamente per mafia. Ignoro se fosse compromesso o meno con la mafia ma in quanto ucciso aveva diritto ad essere onorato almeno come vittima di una vendetta. E la vendetta è sempre iniqua. C’era la sua famiglia a piangere ed io aprendo la celebrazione liturgica ho detto loro: “Ho seguito il corteo che accompagnava in chiesa la salma di quest’uomo ma non ho capito se voi siete favorevoli o contrari a questo omicidio”. La gente è rimasta attonita e pensava: “Ma cosa c’entra con la predica?”. E siccome qualcuno dei parenti con un fare un po’ sdegnato si era levato dal posto per invitarmi a rientrare nella liturgia gli ho detto: “Guardi che forse proprio lei è designato per il prossimo funerale”. A quel punto quell’uomo si è seduto. E ho continuato: “Io parlo così perché vi voglio bene, e vi parlo chiaro

“Uomini delle brigate rosse: li chiamò uomini, che è il termine, se volete, più comune alla famiglia umana, ma è anche il più nobile. Io stasera, pensando alle parole che volevo rivolgere a voi, ho esitato anch’io, però, nel riferire questa espressione di Paolo VI, perché io conosco la deformazione che in seno alla mafia è stata data proprio a questa parola «uomo»: i mafiosi si ritengono uomini, e addirittura–la parodia diventa sacrilega – «uomini d’onore». Se c’è qualcuno che non è un uomo è invece il mafioso, e se c’è qualcuno che non ha l’onore è il mafioso; i mafiosi non sono uomini e i mafiosi non hanno onore: questo dobbiamo dirlo tranquillamente, con tutta la comprensione e la pietà.

“Dentro sono morti questi esseri, non hanno più la libertà di sperare, di credere; forse avranno famiglia, avranno moglie, avranno figli, ma sono esseri umani? No, certo, hanno perduto quella che è la caratteristica più bella, quella dell’essere Uomini nel senso pieno, con la U maiuscola. E neppure possiamo dire sono belve. No, non possiamo offendere le belve, se noi diciamo: «costoro sono delle belve» offendiamo le belve; no, le belve obbediscono a degli istinti e sono condizionati dagli istinti, ma si fermano dinnanzi a quel blocco che la natura stessa ha costituito, non la violentano. Questi esseri, invece, fanno violenza alla loro natura umana in sé stessi prima ancora di fare violenza agli altri.

“Noi dobbiamo costruire una società giusta, una società libera, una società nella quale non ci siano contrasti economici, sociali, ci sia un rispetto per l’uomo, una difesa dei valori umani. Il discorso sulla mafia deve essere inserito in un contesto molto più ampio, non può essere isolato da un fenomeno di disgregazione dei valori, di corsa sfrenata dietro pseudo, falsi valori. È tutto un discorso dell’essere che deve prevalere sull’avere, un discorso che ha radici profonde nella fede cristiana, ma che si arricchisce anche di rapporti culturali che vengono da ogni sana ideologia, da ogni sana filosofia che vuole salvare l’umanità.

“I mass-media propongono modelli di esistenza di adulti e giovani protagonisti di facili successi, legati al mito del consumismo; tanto più forte è per gli adolescenti, per il giovane calabrese la tentazione di un protagonismo che si ispiri anche ai modelli familiari o dell’ambiente in cui la vita si sta sviluppando (non per nulla il mafioso, è detto tra noi «persona di rispetto» e il «don» si impone, infatti, al rispetto reso per timore e talvolta per «ammirazione», errata quanto si vuole ma insistente nella nostra cultura calabrese.

“Siamo noi che apparteniamo alla mafia o è la mafia che ci appartiene? Sono i politici che hanno bisogno dei mafiosi o sono i mafiosi che hanno bisogno dei politici? Elementi per rispondere a tali interrogativi si trovano in una distinzione fondamentale: quella tra mentalità mafiosa e mafia. Mentre il termine mafia, infatti, fa riferimento alla ’ndrangheta violenta, che uccide per le strade, che chiede il pizzo, che gestisce la droga ecc., la «mafiosità» indica quella mentalità e quello stile di vita quotidiano –fatto, solo per fare qualche esempio, di logiche clientelari, di tentativi di aggirare le normali e semplici regole civili–che non solo avalla, ma rafforza la mafia e la sua cultura.

“Noi dobbiamo insistere e operare perché la mentalità mafiosa prima e la presenza mafiosa poi sia ridotta, sia eliminata portando avanti un’altra cultura: la cultura dell’essere, la cultura della non violenza, la cultura dell’onestà e anche l’impegno a essere presenti nel sociale.

“La mentalità mafiosa, che di per sé non è mafia–almeno nel senso tradizionale di associazione che persegue fini illeciti e immorali con metodi altrettanto illeciti e immorali e per di più violenti–, è, tuttavia, l’humus nel quale la «mafia» prospera.

“Che la mafia sia una realtà della nostra situazione culturale e ambientale è innegabile. Ma è un’appendice, non è la sostanza, né dobbiamo pensare che sia la maggioranza: niente affatto! La maggioranza è composta di persone oneste, impegnate e buone. Il problema è che l’altra minoranza è rumorosa, prepotente, è arrogante, tante volte approfitta, non dico dell’omertà, ma della indifferenza degli altri, del lasciar fare. Invece noi dobbiamo reagire in forma non violenta, proprio per il bene anche di questi mafiosi.

“Padre perdonali perché non sanno quello che fanno, illumina le loro coscienze, sono pur sempre fratelli nostri in umanità, ci dice Paolo VI, sono anch’essi fratelli nella fede, sono stati anch’essi battezzati, chissà per quale insieme di circostanze, per quale intreccio di situazioni sono precipitati sulla via della morte. Anche per loro preghiamo stasera, perché Dio li illumini, Dio che può mutare il cuore dell’uomo–egli solo può farlo – raggiunga la profondità della loro coscienza, dove ancora ci sarà un barlume di bontà, dove ancora c’è una scintilla appena, Dio può soffiare su quella scintilla e ritorni il fuoco dell’amore, della libertà, della vita. Anche per loro preghiamo. (pn)

Paolo Vilotta

IL POSTULATORE DELLA CAUSA

di Pino Nano

Oggi, domenica 10 settembre 2023, dunque, alle ore 10:30, presso la Basilica Cattedrale di Reggio Calabria sarà dunque ufficialmente aperta l’Inchiesta diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità del Servo di Dio, don Italo Calabrò, indimenticato sacerdote della diocesi di Reggio Calabria – Bova.

paolo vilotta don italo calabro
Il dr. Paolo Vilotta è il Postulatore della Causa di Beatificazione di don Italo Calabrò

Don Italo Calabrò, il prete forse più famoso e più celebrato della provincia reggina, potrebbe ora diventare Santo. Santo della terra di Calabria, Santo dei poveri che durante tutta la sua vita ha seguito aiutato e assistito come nessun altro aveva saputo fare prima di lui, un momento importante per l’intera Chiesa di fondazione paolina nella quale don Italo Calabrò ha operato fino agli ultimi istanti della sua vita, “lasciando una indelebile traccia rappresentata dalle tante opere-segno realizzate”.

Alla cerimonia di apertura di questa “Inchiesta riguardante la Causa di beatificazione” ci saranno l’arcivescovo metropolita della diocesi di Reggio Calabria – Bova, monsignor Fortunato Morrone, tutti i membri del Tribunale ecclesiastico, e soprattutto il Postulatore della causa, Paolo Vilotta, che insieme a tutti gli altri presterà giuramento secondo quanto previsto dalle norme canoniche relative alle Cause di Beatificazione e Canonizzazione.

-Partiamo dalla prima domanda fondamentale: ma chi sono i postulatori? Qual è il loro ruolo? E soprattutto, quale è la loro missione principale?

“E’ lo stesso Papa Francesco, che ne parla ampiamente nel discorso che tiene al Dicastero delle Cause dei Santi il 12 dicembre 2019. Per il Santo padre “I Postulatori, con la loro azione,contribuiscono a far risaltare gli esempi di quei battezzati che hanno vissuto e testimoniato il Vangelo. Per questo, essi, nel compiere la loro opera, devono essere “sempre più consapevoli che la loro funzione richiede un atteggiamento di servizio alla verità e di cooperazione con la Santa Sede. Essi non si lascino guidare da visioni materiali e da interessi economici, non ricerchino la loro affermazione personale e soprattutto fuggano tutto ciò che è in contraddizione con il significato del lavoro ecclesiale che svolgono. Non venga mai meno nei Postulatori la consapevolezza che le Cause di beatificazione e canonizzazione sono realtà di carattere spirituale; non solo processuale, spirituale. Pertanto, vanno trattate con spiccata sensibilità evangelica e rigore morale”

Un ruolo, dunque, di altissimo profilo morale e sociale. Non a caso, spetta al Vescovo competente, il compito di “investigare sulla vita, sul martirio, sulle virtù eroiche o sull’offerta della vita, e sulla fama di martirio o di santità o di offerta della vita, nonché sulla fama di segni del Servo di Dio, sui presunti miracoli e sul culto reso da tempo immemorabile al Servo di Dio”.

Nel caso di don Italo Calabrò il Postulatore prescelto è uno degli studiosi più amati e più stimati oltre le acque del Tevere, tra le mura Vaticane.Il suo nome è Paolo Vilotta, e non dimenticatelo questo nome, perché vi assicuro che di lui sentiremo parlare ancora molto meglio negli anni che verranno, e in maniera sempre più esaltante. La notizia è ufficiale solo da poco, ma lui è anche il postulatore della Causa di Alcide De Gasperi.

40 anni compiuti, Paolo Vilotta ha già alle spalle un curriculum vitae assolutamente importante, da far riflettere su quella che è la qualità, altissima, degli attori principali di questi processi vaticani.

Di origini calabresi, nato a Castrovillari il 15 novembre 1982, cresciuto ad Amendolara Marina in provincia di Cosenza e legato alla Eparchia di Lungro, dopo la Maturità Classica conseguita presso il Liceo Classico “U. Foscolo” di Oriolo, in provincia di Cosenza, Paolo Vilotta entra come studente al Pontificio Collegio Greco di Sant’Atanasio a Roma, e dimostra con i fatti di essere già ancora giovanissimo un numero uno.

Anche per me quello di oggi sarà un evento importante. Da anni seguo personalmente come postulatore generale i passi di ognuna delle cause assegnatemi e giro per il mondo, spostandomi soprattutto in Sud America, in Brasile. Ho avuto già più di cinquanta cause ma essere in Calabria, a Reggio, per me è importante essendo anche io calabrese. Sono di Amendolara Marina e mio padre è sacerdote di rito ortodosso, papas, di Castroregio”.

Studente modello, di altissimo rigore e di grande formazione culturale, si laurea in Scienze Storico – Religiose, alla Facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Roma “Sapienza” con una tesi su “Il Trattato sui Serafini e sui Cherubini attribuito ad Evagrio Pontico. Traduzione dal siriaco e contestualizzazione storico – letteraria”, tesi poi pubblicata in “Studi sull’Oriente Cristiano”.

Il dr. Paolo Vilotta Postulatore della Causa di Beatificazione di don Italo Calabrò è anche il Postulatore della Causa di Beatificazione di Alcide De Gasperi

È la prima conferma reale del suo valore accademico e della sua straordinaria capacità di analisi e di ricerca sul campo. Ma alle spalle Paolo Vilotta ha anche un Baccalaureato in Filosofia presso la Pontificia Università “S. Tommaso D’Aquino” in Roma e un Diploma dello Studium della Congregazione delle Cause dei Santi ottenuto con il massimo dei voti e la lode.

Si forma grazie ad un Tirocinio vissuto in qualità di collaboratore dell’Archivio di Postulazione presso la Postulazione della Provincia Romana O.F.M. in Roma dove nei fatti svolge il ruolo di commissario storico nella causa di canonizzazione del Servo di Dio Nazareno Lanciotti. Ma è solo l’inizio di un percorso molto più impegnativo e più complesso. Affidano a lui il compito di sistemare la documentazione riguardante la Serva di Dio Natalina Bonardi, presso l’Archivio della Casa Generalizia delle Suore di Santa Maria di Loreto in Vercelli e la sistemazione dell’Archivio della Serva di Dio Macrina Raparelli, Archivio della Casa Madre delle Suore Basiliane di Santa Macrina, Mezzojuso (PA).

Postulatore delle Cause dei Santi dal 2010, oggi Paolo Vilotta è più cose insieme: Postulatore Generale della Congregazione Poveri Servi della Divina Provvidenza; Postulatore Generale della Congregazione delle Maestre Pie Venerini; Postulatore Generale della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione, Postulatore di cinquantasei Cause di Beatificazione e Canonizzazione (tra Fase Diocesana e Fase Romana).

Molti di questi “processi” sono seguiti in lingua portoghese, soprattutto sul territorio del Brasile e del Portogallo, che Paolo Vilotta conosce ormai come le sue tasche, ma molte anche in Italia.

Curatore della collana agiografica “Exempla hagiographica – Vie di santità” (Sezione italiana e Sezione brasiliana), di recente gli è stata affidata la Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Papa Benedetto XIII.

Di più. Paolo Vilotta è stato fino ad oggi Curatore delle seguenti “Positiones”, portate a termine e consegnate presso la Congregazione delle Cause dei Santi e di queste la maggior parte hanno raggiunto la venerabilità Sulla vita, le virtù e la fama di santità ne ricordiamo solo alcune: Servo di Dio Giovanni Ciresola, sacerdote diocesano;-Servo di Dio Luigi Bosio, sacerdote diocesano; Servo di Dio Giovanni Ferro, C.R.S, Arcivescovo di Reggio Calabria e Vescovo di Bova; Servo di Dio Albino Alves da Cunha e Silva, sacerdote diocesano; Servo di Dio Angelino Cuccuru, laico;Venerabile Donizetti Tavares de Lima, sacerdote diocesano; Servo di Dio Nelson Santana, giovane laico; Serva di Dio Aristea Ceccarelli Bernacchia, laica;     Serva di Dio Natalina Bonardi, fondatrice della Congregazione delle Suore di S. Maria di Loreto; Serva di Dio Maria do Carmo della Santissima Trinità (al sec. Caterina Bueno), professa dell’Ordine delle Carmelitane Scalze e fondatrice del Monastero del Santo Volto e di Pio XII in Tremembé (Brasile); Serva di Dio Odette Vidal Cardoso, giovane laica; Venerabile Macrina Raparelli, fondatrice della Congregazione delle Suore Basiliane Figlie di S. Macrina; Serva di Dio Teresa Veronesi, professa della Congregazione delle Suore Minime dell’Addolorata; Servo di Dio Franz de Castro Holzwart; Serva di Dio Lorena D’Alessandro.

Per chi non sconosce questo mondo, le “Positiones”, non sono altro che il libro-dossier che presenta in maniera dettagliata tutto l’apparato probatorio documentale e testificale raccolto durante l’Inchiesta Diocesana.

Ancora una foto di don Italo Calabrò insieme a Papa Giovanni Paolo Secondo con cui il sacerdote reggino aveva un rapporto davvero molto speciale

Paolo Vilotta è inoltre Postulatore di varie Cause già giunte alla Beatificazione, e che sono: 2011 Arcidiocesi di Salvador de Bahia (Brasile), Beata Dulce Lopes Pontes, professa della Congregazione delle Suore Missionarie dell’Immacolata Concezione della Madre di Dio; 2013  Diocesi di Campanha (Brasile), Beata Francisca de Paula de Jesus-detta Nha Chica, laica; 2015  Diocesi di Campanha (Brasile), Beato Francisco de Paula Victor, sacerdote diocesano, 2019  Diocesi di São João da Boa Vista (Brasile) Beato Donizetti Tavares de Lima, sacerdote diocesano.

Postulatore delle Cause già giunte alla Canonizzazione: 2016 di Sant’Alfonso Maria Fusco, sacerdote diocesano e fondatore della Congregazione delle Suore di San Giovanni Battista; -2019 di Santa Dulce Lopes Pontes, professa della Congregazione delle Suore Missionarie dell’Immacolata Concezione della Madre di Dio.

Oggi a Reggio si apre la causa di beatificazione di don Italo, ma da appena un mese Paolo Vilotta è anche il nuovo Postulatore della Causa di Beatificazione di Natuzza Evolo, il che significa che da oggi in poi il giurista scelto dalla Chiesa di Francesco in Calabria sarà più di casa di quanto lui stesso forse non avesse mai immaginato o messo in conto. Ma per questo vi dicevo prima che sentiremo parlare di lui molto più di tanti altri postulatori come lui.

il dr. Paolo Vilotta con Papa Francesco

Come si diventa Santi?

Ecco il Vademecum ideale che il dr. Paolo Vilotta ci lascia come segno di amicizia e di attenzione.

1. La Causa di beatificazione e canonizzazione di un Servo di Dio viene iniziata dal Vescovo, sia d’ufficio, sia su istanza del Postulatore, che, approvato per iscritto dall’autorità ecclesiastica competente, agisce su mandato dell’Attore.

2. L’Attore della Causa può essere una Diocesi, una Conferenza Episcopale, una Parrocchia, un Istituto di Vita Consacrata, una Società di Vita Apostolica, un’Associazione clericale e/o laicale, un singolo fedele o più Co-Attori che operano in solidum.

3. L’Attore promuove la Causa di beatificazione e canonizzazione e ne assume la responsabilità morale e finanziaria.

4. Il Postulatore esercita l’ufficio di rappresentante giuridico dell’Attore della Causa presso il Dicastero e le autorità ecclesiastiche competenti.

5. Il Postulatore, inoltre, promuove e coordina l’attività utile per divulgare la conoscenza del Servo di Dio e ne fomenta l’intercessione.

6. In virtù del suo ufficio, il Postulatore assume una particolare responsabilità, sia nei riguardi dell’Attore, sia nei riguardi del Vescovo e del Popolo di Dio.

7. Può svolgere l’ufficio di Postulatore ogni fedele cattolico di provata integrità, che abbia un’adeguata conoscenza della teologia, del diritto canonico e della storia, nonché della prassi del Dicastero.

8. Il Postulatore della fase romana della Causa e possibilmente anche per la fase diocesana deve essere in possesso del diploma della Scuola di Alta Formazione in Cause dei Santi.

9. Non possono essere nominati Postulatori delle Cause i Cardinali di Santa Romana Chiesa, i Vescovi e coloro che ricoprono, presso il Dicastero, incarichi come Officiali, Consultori Storici, Consultori Teologi e Periti Medici.

10. Il Postulatore è legittimamente nominato dall’Attore con un Mandato di Postulatore e ratificato per iscritto dalla competente autorità ecclesiastica, la quale nella fase diocesana è il Vescovo e nella fase romana il Dicastero.

11. Il Postulatore Generale è nominato, sia per la fase diocesana, sia per quella romana, con un Mandato di Postulatore Generale emesso dal Moderatore Supremo dell’Istituto con il consenso del suo Consiglio. Egli, quindi, rappresenta l’Istituto, davanti al Dicastero ed alle autorità ecclesiastiche locali per tutte le Cause dello stesso Istituto e degli Istituti ad esso aggregati a norma del diritto. La nomina deve essere ratificata dal Dicastero.

12. Il Postulatore ad casum è nominato per la fase diocesana o per quella romana della Causa con un Mandato di Postulatore, emesso dall’Attore della Causa.

13. Se un presbitero o un religioso viene nominato Postulatore di una Causa, che non è promossa dalla Diocesi nella quale è incardinato o dall’ Istituto di Vita Consacrata al quale appartiene, deve ottenere il consenso scritto rispettivamente del Vescovo o del Superiore competente; se laico, deve esibire il nulla osta rilasciato dal proprio Vescovo.

14. Dopo la ratifica della nomina da parte del Vescovo competente o del Dicastero, il Postulatore presta giuramento, davanti all’autorità ecclesiastica competente, di adempiere fedelmente l’incarico e di mantenere il segreto d’ufficio, ottemperando anche alle leggi civili riguardanti la privacy delle persone coinvolte nella Causa, soprattutto se minorenni.

15. In qualsiasi momento, il Postulatore può rinunciare al suo ufficio dando comunicazione scritta all’Attore, o l’Attore può dimetterlo, con una notifica scritta, inviata anche all’autorità ecclesiastica competente.

16. Al termine dell’Ultima Sessione dell’Inchiesta sul martirio, sulle virtù eroiche, sull’offerta della vita e sul culto antico, il Postulatore ad casum decade dal proprio ufficio.

17. Il Postulatore decade dal suo ufficio per tutte le Cause al compimento dell’ottantesimo anno di età.

18. In considerazione dell’impegno richiesto per ogni Causa di beatificazione e canonizzazione, ad un Postulatore ad casum non possono essere affidate nella fase romana più di trenta Cause attive.

19. Contestualmente alla nomina, l’Attore della Causa, conferisca al Postulatore un incarico professionale con esplicitazione delle prestazioni da svolgersi per le fasi inerenti alla nomina, ai compensi e a quant’altro è previsto dalla normativa territoriale civile vigente.

20. Tale incarico deve svolgersi sotto la vigilanza della competente autorità ecclesiastica e può essere rinnovato.

21. Una copia dell’incarico conferito è inviata al Dicastero e al Vescovo competente.

22. Il Postulatore ha diritto a un equo compenso, proporzionato al lavoro effettivamente svolto, concordato per iscritto con l’Attore della Causa ed erogato dall’Amministratore del fondo dei beni della stessa, sotto la vigilanza della competente autorità ecclesiastica secondo le Norme sull’amministrazione dei beni delle Cause di beatificazione e canonizzazione.

23. Il Postulatore non deve esigere né ricevere uno stipendio legato alla sua nomina per ogni singola Causa.

24. Il Postulatore Generale deve attenersi anche alle norme amministrative stabilite dall’Istituto che gli ha conferito l’incarico.

25. Il Postulatore può svolgere il suo incarico anche a titolo gratuito.

26. In conformità alle norme sull’amministrazione dei beni, il Postulatore non può svolgere l’incarico di Amministratore del fondo dei beni della Causa; il Postulatore Generale, invece, può assumere tale incarico soltanto per le Cause del proprio Istituto e degli Istituti ad esso aggregati a norma del diritto.

27. Qualora si rendesse necessario l’intervento del Vescovo o del Dicastero in questioni amministrativo-finanziarie riguardanti il Postulatore della Causa, egli è tenuto a prestare la sua piena collaborazione, fornendo ogni informazione e relativa documentazione in suo possesso.

28. Nei rispettivi momenti indicati dal Dicastero, il Postulatore avvisa l’Amministratore del fondo dei beni della Causa affinché versi  il contributo previsto, verificandone l’avvenuto versamento.

29. Nella fase romana il Dicastero tratta ordinariamente con il Postulatore.

30. Il Postulatore non deve avere alcun contatto con chiunque sia stato incaricato dal Dicastero per il giudizio delle Cause a lui affidate.

31. Nelle Diocesi, il Postulatore può farsi sostituire o aiutare da uno o più Vice-Postulatori che vengono da lui nominati con un Mandato di Vice-Postulatore, con l’approvazione scritta dell’Attore della Causa.

32. Il Vice-Postulatore deve avere le stesse qualità morali e professionali e la stessa preparazione del Postulatore, nonché prestare giuramento davanti al Postulatore di adempiere fedelmente il suo incarico e di mantenere il segreto d’ufficio.

33. Il Postulatore e il Vice-Postulatore non sono dipendenti della Santa Sede, degli Enti Centrali della Santa Sede o degli Enti gestiti direttamente dalla Santa Sede.

34. Il Postulatore e il Vice-Postulatore non possono fruire del regime fiscale dell’art. 17 del Trattato Lateranense.

35. Quanto stabilito in questo Regolamento circa l’attività ed i compiti del Postulatore va applicato anche al Vice-Postulatore, il quale deve sempre agire secondo le direttive del Postulatore.

36. In caso di inadempienze, di negligenze o di abusi di ufficio da parte di un Postulatore nella fase romana, il Dicastero può intervenire disciplinarmente a norma del diritto e, dopo aver svolto le debite indagini, anche revocare la ratifica della sua nomina.

Don Italo Calabro

Per i reggini è già Santo

All’improvviso, nel mese di aprile 1990, il Signore mi ha chiaramente avvertito che la mia giornata volgeva rapidamente al declino”.

Sono le parole con le quali don Italo Calabrò inizia il suo testamento spirituale scritto il 9 giugno 1990, pochi giorni prima della sua morte.

Ma chi era don Italo Calabrò? Come ha vissuto il suo sacerdozio? Come ha servito Cristo, la Chiesa,e i poveri?

don Italo Calabrò nel giardino di una delle sue case famiglia a Reggio Calabria

Don Italo Calabrò è nato a Reggio Calabria il 26 settembre 1925 ed è cresciuto in una famiglia esemplare che lo ha educato al lavoro e alla fede. Mentre era studente al liceo classico “T. Campanella” di Reggio Calabria, comunicò ai suoi genitori il desiderio di diventare sacerdote. Più di tutti fu la mamma, Teresa Cilione, a credere nella vocazione del figlio Italo. Anche suo padre, Giovanni, dopo un primo momento di “delusione”, fu favorevole all’ingresso del figlio nel seminario. Ottenne, però, che il figliolo prima terminasse gli studi liceali. In questa fase della vocazione Italo viene seguito dallo zio, don Antonino Calabrò, parroco della parrocchia di S. Maria della Cattolica di Reggio.

A 17 anni consegue la maturità classica e nel settembre del 1942 entra nel seminario diocesano “Pio XI” di Reggio dove affina e completa la sua preparazione. I compagni, i docenti e i superiori lo ricordano tra i migliore di tutti i seminaristi non solo per la bravura nel superare gli esami ma anche per il carattere gioviale e per la generosità nell’aiutare e incoraggiare chi faceva più fatica ad andare avanti.

Il 25 aprile 1948 viene ordinato sacerdote dall’arcivescovo Antonio Lanza del quale diventa subito segretario. L’improvvisa morte del pastore, avvenuta il 23 giugno 1950, provoca a don Italo tanto dolore e sofferenza. Don Italo comincia a sperimentare fin dai primi anni di sacerdozio che la sequela di Cristo non è per niente facile. Già in quell’amara prova, sostenuto con grande affetto da mons. Demetrio Moscato, divenuto in seguito vescovo di San Marco Argentano e Bisignano e poi di Salerno, don Calabrò testimonia il suo amore e la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Nel settembre del 1950 viene nominato arcivescovo di Reggio mons. Giovanni Ferro che guida la diocesi per 27 anni. Don Italo, entrato nel cuore di mons. Ferro, diventa suo stretto collaboratore e ricopre via via negli anni molteplici incarichi diocesani.

E’ educatore e insegnante nel seminario diocesano, assistente dei giovani di Azione Cattolica (GIAC) e poi degli Uomini Cattolici (FUIC), segretario e direttore dell’Ufficio amministrativo diocesano, cerimoniere del Capitolo Cattedrale, viceparroco e, dal 1964 sino all’ultimo istante della sua vita, parroco di San Giovanni di Sambatello dove dispose di essere sepolto.

A 24 anni, nel 1949, a un anno dall’ordinazione sacerdotale è già canonico: la nomina del vescovo Lanza coincide con quella di cerimoniere arcivescovile e e di insegnante nel seminario diocesano. Rinuncia a tale carica il 30 novembre 1960. Dal 1956 al 1963 è stato direttore dell’Ufficio Amministrativo della diocesi. Inoltre è stato giudice del Tribunale Ecclesiastico Regionale dal 1959 al 1974. Assistente diocesano GIAC, assistente Diocesano Uomini di Azione Cattolica. La Congregazione per l’Educazione Cattolica lo nomina ispettore di religione per l’Italia Meridionale dal 1965 al 1971. E’ presidente dell’Opera Diocesana Assistenza (ODA) dal 1955 al 1970. Viene nominato presidente della Caritas Diocesana fin dalla fondazione della stessa, nel 1971, e ne è Delegato Regionale dal 1971 al 1982. Il 19 dicembre 1985 lascia l’incarico di Direttore della Caritas Diocesana.

E’ cofondatore della Caritas Italiana e per diversi anni ricopre la carica di vicepresidente nazionale: assieme don Giovanni Nervo e don Giuseppe Pasini promuove in tutta Italia il rinnovamento del servizio pastorale ai poveri inteso non più come solo fatto assistenziale ma soprattutto di integrale promozione umana e di liberazione. E’ tra gli artefici della promozione “obiezione di coscienza alternativa al servizio militare…”

Vicario episcopale per le attività assistenziali e caritative dal 1971, è anche Vicario Generale dell’Arcidiocesi di Reggio dal 1974 alla morte.

I poveri e i giovani sono i due grandi poli tra cui si svolge tutta l’intensa azione pastorale e civile di don Italo. Educatore d’intere generazioni giovanili, sia nelle file dell’associazionismo cattolico sia nel mondo della scuola, insegna religione per lunghissimi anni, dal 1954 fino al 1979 in diversi istituti cittadini e conclude nella scuola che più ha amato: il tecnico industriale “A. Panella”.

Sacerdote di Cristo per i fratelli, con una predilezione per i più poveri, vive la sua vita con la consapevolezza che “la vocazione è un dono per una missione. Dio chiama ogni uomo perché sia manifestazione vivente del suo amore per l’umanità. Perciò Dio chiama per inviare ognuno per un servizio ai fratelli determinato dal dono personale di cui lo ha arricchito” .

Fu un prete santo perché rispose alla chiamata del Signore con viva fede e spirito di sacrificio, amando Dio e i fratelli. Guardava la realtà, e in essa si incarnava, con la mentalità formata alla scuola della Bibbia e del magistero della Chiesa. Ai fratelli e a Dio donava tutto ciò che era ed aveva. Non si appropriò dei talenti che la provvidenza gli aveva donato. Li usò sempre per il bene e la liberazione di quanti il Signore metteva sulla sua strada. Pur assumendo con responsabilità complessi compiti ecclesiali e civili, non caricò la sua esistenza di fardelli che potessero indebolire o allentare il passo e la voce del profeta. Il suo modo di vivere, il suo vestire, il suo parlare, esprimevano la libertà di chi aveva deciso di seguire Cristo e di farsi tutto a tutti. La sua casa era luogo di accoglienza, di incontro e scuola di vita spirituale: aveva allestito una camera per l’ospitalità dei giovani da lui seguiti che si trovavano in particolare difficoltà. L’essenzialità del suo cibarsi esprimeva sobrietà e rispetto per chi non aveva di che nutrirsi. Considerava il denaro strumento da usare con parsimonia e attenzione: ai soldi non si attaccò mai e anche il modo di “trattarli” ne esprimeva il distacco.

don Italo Calabrò con i suoi ragazzi

Vive la sua vita affettiva con equilibrio, comunicando tutta la carica passionale, propria del suo carattere sanguigno, nelle relazioni che avviava con quanti incontrava. Anche la dimensione sessuale, è vissuta da don Italo con serena considerazione e armonia: agli amici intimi raccontava qualche “tentazione” che colorava con simpatica e arguta ironia. Riconosce l’importanza del dono del celibato, anche se ha grande rispetto e comprensione verso i confratelli che lasciano l’esercizio del sacerdozio per difficoltà su questo piano. Ringrazia il Signore che gli dà il dono della fedeltà e tuttavia, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, intravede, per il bene della Chiesa e dei fedeli, la possibile riconsiderazione del vincolo del celibato per i presbiteri cattolici.

Don Italo non si sentì mai un convertito realizzato pienamente: sapeva che ogni giorno doveva rinnovare il suo “si” al Signore e purificare la sua vita dalle incrostazioni. Rinvigoriva il suo cammino attingendo grazia e sapienza dall’Eucaristia e dalla preghiera che apriva e chiudeva le sue giornate.

L’incontro con i poveri, che in lui trovavano conforto, orientava e illuminava le sue scelte. “I poveri”, ci diceva – “sono i nostri padroni. I poveri sono Cristo, l’ottavo sacramento”. Nel suo testamento spirituale lo stesso don Italo raccoglie in una breve frase il senso più profondo della sua esistenza: “Amatevi tra voi, di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada, nessuno escluso, mai! E’ questo il comandamento del Signore”. Il Vangelo era la legge ed il riferimento fondativo della sua esistenza che ha consumato nella continua testimonianza dell’amore di Cristo. Impegnato fin da giovane in delicati e difficili incarichi pastorali, mise sempre al centro della sua vita sacerdotale il servizio ai più poveri e la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa.

Quando venne eletto Giovanni XXIII, il Papa Buono, la sera del 28 ottobre del 1958, don Italo in diocesi ricopriva diversi incarichi. E proprio nel 1958, primo anno di pontificato del Papa Buono, don Italo ha modo di scoprire la terribile condizione dei malati mentali ricoverati nel manicomio di Reggio Calabria. Accompagnò un suo giovane amico medico per essere ricoverato. Il Signore irrompe nella vita di don Italo attraverso gli ultimi, gli emarginati che già aveva conosciuto ma che ancora non lo avevano, come lui ci diceva, messo in crisi. Ci disse che per lui fu un vero “pugno nello stomaco”, don Luigi Ciotti avrebbe detto “una pedata di Dio”.

L’incontro con gli ammalati mentali e con i più poveri, fece crescere in don Italo quella “fame e sete di giustizia” che lo spinse ad organizzare a partire dal 1968 con i suoi studenti del “Panella” molteplici iniziative per ridare dignità e giustizia a tanti poveri cristi. Un impegno finalizzato innanzitutto a far chiudere il manicomio e ad impedire nel frattempo che altri ammalati vi entrassero.

Alcuni studenti del “Panella”, diplomati nel 1968, accolsero la sfida di don Italo: fare la rivoluzione a partire dalla propria vita. Iniziarono a condividere la prima esperienza della nascente Piccola Opera Papa Giovanni nella casa canonica della sua parrocchia di San Giovanni di Sambatello dove vennero accolti i primi sei giovani con disabilità. Il 7 dicembre 1968 il vescovo Giovanni Ferro durante la messa della vigilia dell’Immacolata, benedice la “nascente Piccola Opera di papa Giovanni…”.

In quello stesso periodo don Italo Calabrò costituì il gruppo dei Giovani Amici che in seguito diventerà il Centro Comunitario Agape: il senso di quella comunità voluta da don Italo, era innanzitutto vivere la condivisione con i poveri, lottare contro ogni emarginazione, rimuovere le cause delle ingiustizie e promuovere la liberazione da ogni forma di schiavitù.

Gli anni seguenti sono un progressivo fiorire di comunità di accoglienza, centri di riabilitazione, gruppi di volontariato da lui voluti e animati: nascono così case-famiglia per minori in difficoltà e ragazze madri, comunità per persone con disabilità e malati mentali, servizi per adolescenti con problemi con la giustizia, cooperative di solidarietà sociale per l’inserimento lavorativo di ragazzi emarginati, famiglie aperte all’affidamento e alla adozione. Nel 1970, nei locali della Curia arcivescovile che oggi ospita la biblioteca diocesana, don Italo avvia la Casa dello studente, che ha permesso a decine di ragazzi orfani e residenti nella periferia della diocesi, di poter studiare e conseguire un diploma e a volte anche la laurea. Alcuni studenti di allora oggi sono anche docenti universitari e molti sono affermati professionisti. Nello stesso anno la Piccola Opera si trasferisce da San Giovanni di Sambatello a santa Domenica, piccola frazione della periferia reggina.

Nel 1973 nella frazione Pilati di Melito Porto Salvo, fa nascere il Centro Giovanile Pilati, oggi cooperativa don Italo Calabrò: tre giovani del “Panella”, nell’agosto di quell’anno avviano la prima casa-famiglia con i ragazzi dell’Istituto Addolorata di Prunella che l’anno dopo don Italo farà chiudere. I ragazzi saranno ospitati in comunità più adeguate alla loro formazione e in alcuni nuclei familiari che hanno così iniziato l’esperienza dell’affido. Nel 1974 la Piccola Opera, sempre guidata da don Italo, apre un altro centro a Prunella.

Un’attenzione particolare don Calabrò dedica, sin dai primi anni ’70, al problema dell’ospedale psichiatrico reggino e, dopo l’emanazione della legge 180 del 1978, segui il dramma dei dimessi. Nell’estate del 1975 promuove la prima esperienza del “soggiorno sociale” realizzato a Cucullaro di Santo Stefano in Aspromonte nella Casa “San Paolo” della diocesi: ai malati mentali chiusi nel manicomio reggino venne data la possibilità di vivere un momento di vacanza. Quell’esperienza ha continuato a realizzarsi fino a due anni fa, quando a causa del COVID, è stata interrotta. Il 29 luglio del 1977, è tra i promotori della marcia internazionale per la pace organizzata da Pax Christi che partì dal quartiere Archi e terminò proprio dentro il manicomio con la presenza dei vescovi Ferro e Bettazzi.

Nel 1977, in locali messi a disposizione da mons. Giovanni Ferro, vescovo della diocesi di Reggio Calabria – Bova, a Prunella farà nascere l’esperienza della cooperativa agricola “Comuneria”, per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità.

Nel 1978 promuoverà la nascita della Cooperativa Servizi Sociali dell’Agape che dopo qualche anno si chiamerà coop. “Marzo 78”: l’esperienza nasce in seguito alla chiusura dei Riformatori per garantire l’accoglienza dei minori in esso rinchiusi. Nel 1979, nel centro di Reggio, in un locale della diocesi, avvierà la Cooperativa “L’Arca”, che per tanti anni ha consentito di avviare al lavoro altre persone con disabilità.

Nel 1979, dopo la legge sull’aborto, don Italo Calabrò avvia la casa accoglienza per ragazze madri, oggi intitolata a suor Antonietta Castellini che fu una delle collaboratici di quella prima esperienza. Nello stesso anno, nel mese di novembre, nei locali della Curia che ospitavano l’ufficio della Caritas Diocesana, don Italo, con la collaborazione delle suore di Madre Teresa di Calcutta che pochi mesi prima avevano avviato una mensa per i poveri, apre la prima comunità per cinque dimessi dal Manicomio: trovarono rifugio Antonio, Ferdinando, Cesare, Ernesto e Agesilao. Collaboratori di quella esperienza furono Suor Speranza Lentini, delle suore di Santa Giovanna Antida e Piero Cipriani, giovane barese che per molti anni collaborò con don Italo e scrisse uno dei libri che raccontano la sua vita.

Alle attività di volontariato interno allo Psichiatrico si affiancano, così, nel corso degli anni, varie comunità d’accoglienza per malati mentali. L’ultimo progetto da lui voluto è un Centro diurno polivalente per disabili, il centro “Tripepi Mariotti”, che non ha fatto in tempo a inaugurare. Lo stesso centro sarà aperto nel 1991.

Il 20 maggio 1979 accoglie Madre Teresa di Calcutta che per la prima volta viene Reggio. Il 29 maggio dello stesso anno nasce a Reggio Calabria la prima comunità delle Suore Missionarie della Carità per il servizio ai più poveri dei poveri. Le suore curano la mensa per i poveri e la loro accoglienza che viene chiamata “Sentiero Ho Chi Min”. Madre Teresa tornerà ancora a Reggio Calabria il 28 e 29 ottobre del 1982 e don Calabrò organizza la sua presenza in città. La sera del 28 ottobre 1982, la Cattedrale, gremita di fedeli, accoglie Madre Teresa di Calcutta.

Agli inizi del 1980, dove prima c’era la Casa dello Studente che viene traferita in altri locali, don Italo farà nascere “Casa Opitalità” che accoglierà altri dimessi dal manicomio. L’11 marzo 1981 la professoressa Maria Mariotti, laica illuminata della diocesi reggina bovese, dona al Centro Comunitario Agape un terreno dove nascerà il centro per persone con disabilità dedicato ai suoi genitori. Oggi nello stesso terreno la Piccola Opera ha il suo centro operativo più imporrante con gli uffici amministrativi, il centro diurno “Tripepi Mariotti, il centro ambulatoriale “P. Raffa” e il centro residenziale “C.

Pizzi”. Sempre nel 1981, il 9 novembre, le donne accolte a Casa Ospitalità verranno trasferite in una nuova comunità: il “Cassibile” di Villa San Giovanni.

Don Italo si prese cura anche dei sacerdoti soli e in difficoltà soprattutto quando diventavano anziani e ammalati: così il 9 ottobre del 1983, sempre nei locali della curia diocesana, avviò la Casa del Clero, per l’accoglienza dei sacerdoti anziani.

Nel Natale del 1983, promuoverà anche la nascita di “Casa Emmaus”: la comunità parrocchiale di Palizzi, centro a 50 chilometri da Reggio, accolse nella casa canonica gli ammalati mentali del paese che erano chiusi nel manicomio reggino.

Nello stesso anno promuove la nascita del MO.V.I. (Movimento Volontariato Italiano).

Attento ai giovani, con i quali aveva un dialogo aperto e sincero, avviò con alcuni di essi, sempre agli inizi degli anni Settanta, il Centro Comunitario Agape, una comunità da lui realizzata per la comunione di vita con i più poveri ed eretta ad Ente Morale nel 1983.

Nella Piccola Opera Papa Giovanni don Italo buttò un seme di amore che in questi anni è cresciuto e si è moltiplicato grazie all’impegno generoso e sapiente di tanti amici che sono rimasti fedeli alle motivazioni originarie. Attraverso la sua testimonianza, innanzitutto, richiamava la Chiesa e la società a essere attente ai bisogni dei fratelli emarginati. Da vero profeta non si limitava a elencare i diritti dei poveri ma a gridarli a partire dalla sua vita. Gli ospiti e i dimessi dell’Ospedale Psichiatrico, le ragazze madri, i barboni, i minori abbandonati fuori e dentro gli istituti, i disoccupati, erano per don Italo persone da servire, da liberare dall’emarginazione, da restituire alla dignità d’uomini.

Non erano categorie sociali, gruppi astratti di persone. Conosceva i nomi e le storie di tutti loro e a ciascuno cercava di dare una mano per risolvere qualche problema. Capitava che qualcuno lo ringraziava. Lui rispondeva sempre “dovere”: si, perché lo stile di don Italo era fondato sulla gratuità. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. “Noi amiamo” – diceva – “perché Dio ci ama per primo. E quello che noi riusciamo a donare è sempre grazia, dono di Dio da restituire ai fratelli, perché niente ci appartiene, tutto è dono di Dio”.

La sua carità non aveva limiti: attenta, premurosa, umile. La riconduceva sempre a Cristo. “Siamo servi inutili”, era una citazione che amava ricordare ogni qualvolta magari eravamo orgogliosi per aver realizzato qualche buona azione o per essere riusciti in qualche iniziativa. Apriva continuamente nuovi “fronti” di servizio per i fratelli in difficoltà: iniziando di solito con pochi strumenti realizzava esemplari opere educative. Così dopo la sua prima esperienza d’accoglienza avviata a San Giovanni di Sambatello nella casa canonica, faceva nascere, grazie alla disponibilità di sacerdoti, laici e comunità cristiane, altre esperienze di solidarietà per i minori, i malati mentali, gli anziani. Don Calabrò credeva nell’importanza pedagogica per tutta la Chiesa e i cristiani di tali scelte.

Egli richiamava continuamente, infatti, la necessità per la Chiesa e per i cristiani di mettere a disposizione dei poveri i propri edifici e le risorse. “Se i beni della Chiesa non li mettiamo a disposizione delle necessità dei poveri” – ci diceva – ” non sono benefici ma malefici della Chiesa”.

Gli stessi locali della diocesi, come quelli del “cortile della Curia”, per molti anni furono luogo privilegiato per l’accoglienza dei poveri. La Chiesa diveniva sempre più “casa madre”, focolare d’amore, grembo materno che accoglieva i figli più fragili. La Chiesa così fa proprie le fatiche e le sofferenze, le ansie e le angosce degli uomini e li accompagna in un cammino di speranza. La sua fede nella Chiesa Santa e Cattolica lo spingeva a calarsi nella realtà sociale per denunziare tutto ciò che opprimeva l’uomo e ne impediva la liberazione.

Sacerdote formatosi in anni preconciliari, seppe trarre dal Concilio Vaticano II tutta la forza innovativa che incarnò nella sua missione a servizio della diocesi. Determinante è il suo contributo per l’adeguamento delle chiese locali calabresi agli orientamenti partecipativi e comunionali del Concilio Vaticano II e in particolare per l’istituzione a Reggio dei Consigli Presbiterale e Pastorale. Manifesta le sue capacità anche nel corso dei 16 anni in cui, mentre è parroco di San Giovanni di Sambatello, è vicario prima negli ultimi anni di episcopato di mons. Ferro e poi con mons. Sorrentino.

Don Calabrò contribuisce in maniera decisiva alla realizzazione di due eventi d’eccezionale portata storica per Reggio e per l’intera Calabria: la prima visita di Giovanni Paolo II nel 1984 e la Celebrazione del XXI Congresso Eucaristico Nazionale nel 1988 con la seconda visita del Pontefice.

Nel 1987 avvia, a Villa San Giovanni, “Casa Corigliano”, esperienza di accoglienza per altri ammalati mentali. E nel 1988 a Melito Porto Salvo avvia un’altra comunità per ammalati mentali: “Villa Falco”.

Uomo di grande apertura e coraggio, sa precorrere i tempi e cogliere i segni del cambiamento: la scelta dei poveri e la promozione del volontariato in anni in cui tali scelte non erano prive di ostacoli e incomprensioni; l’impegno per la pace e la non violenza (è tra i primi in Italia a sostenere e a diffondere l’obiezione di coscienza al servizio militare); l’apporto della Chiesa per il Mezzogiorno.

Condannò la mafia indicando alla comunità ecclesiale e civile la via della ferma denuncia. Rimarrà un punto di riferimento per tutti coloro che sono impegnati contro la ‘ndrangheta l’omelia di don Calabrò del 2 agosto 1984: la celebrazione eucaristica era stata organizzata insieme al parroco di Lazzaro don Mimmo Marino per chiedere la liberazione del piccolo Vincenzo Diano sequestrato pochi giorni prima. Il ragazzo fu liberato il 7 ottobre 1984 in coincidenza con la prima visita di Giovanni paolo II a Reggio Calabria. S’impegnò per fare uscire dagli istituti quanti più bambini, malati mentali, donne fosse possibile promovendo anche la dimensione della giustizia per la realizzazione di leggi e strutture più umane e adeguate.

Lavorò instancabilmente con i giovani, quelli del suo “Panella” innanzitutto, la scuola dove insegnò per tanti anni, educandoli e incoraggiandoli ad avere fiducia in se stessi e mettendoli nella condizione di fare esperienze di vita liberanti. Dialogava con tutti senza alcun pregiudizio ideologico. Non imponeva il suo punto di vista se non quando si trattava di mettersi a disposizione degli ultimi. Cercava di fare lui per primo quello che chiedeva agli altri.

Così i principi della solidarietà e della condivisione li applicava innanzitutto a se stesso. Convinto che tutto andava messo a servizio dei fratelli, l’11 marzo 1981, lo stesso giorno della donazione fatta da Maria Mariotti, donò la sua casa, dove continuò a vivere pagando un affitto mensile, al Centro

Comunitario Agape “per garantire maggiore stabilità” – scrive ai suoi vicini condomini – “anche patrimoniale alla comunità Agape”.Per non staccarsi dal servizio ai poveri per due volte rinunciò all’incarico episcopale. Una scelta non facile, che però visse senza rimpianti e ripensamenti: la Chiesa per don Italo fu realmente luogo di servizio e di comunione. Cristo e i poveri erano il suo orizzonte di vita. Nel 1973 è chiamato dall’allora Segretario della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Bartoletti, a collaborare ad un documento episcopale sul Meridione e più tardi accoglie con grande favore il testo redatto dai vescovi italiani nel 1989 sul Sud, di cui si fa propagatore in moltissime diocesi.

Disoccupazione giovanile e mafia sono i due punti su cui concentra il suo impegno per il Sud. Non cessa mai di invocare un deciso intervento dello Stato per una reale crescita occupazionale, come argine al degrado della convivenza civile, allo strapotere mafioso e al dilagare di metodi clientelari e corrotti nella gestione della cosa pubblica e nella classe politica.

E’ anche l’ispiratore del documento del gennaio 1990 con cui il Consiglio Presbiterale della diocesi di Reggio Calabria – Bova denuncia atti d’intimidazione contro sacerdoti della diocesi, che susciterà enorme scalpore sulla stampa e nella Chiesa italiana.

Nei suoi scritti troviamo una pagina molto significativa che rivela la sua alta spiritualità: “Il Signore mi ha potato e purificato più volte: dolori fisici e prove morali, sofferenze, angosce, delusioni, difficoltà, perché io portassi più frutto. Mi ha anche umiliato, perché non montassi in superbia e sicura fosse la mia rovina. Ti benedico Signore. Potami ancora, quando e come tu vuoi, ma fa che nell’ora della prova ti ami ancora. La prova non è fine a se stessa, ma è per la vita”.

Così venne per don Italo il tempo della grande purificazione. Gli ultimi mesi della sua vita li visse unito ancora più profondamente al Cristo, suo Signore, attraverso il mistero della croce. E venne l’ora, all’alba del 16 giugno del 1990, in cui il Signore chiese a don Italo di sciogliere le vele, di non lottare più perché bastava quanto aveva combattuto. Il giorno delle sue esequie fu salutato da quasi tutti i poveri che aveva servito.

La Cattedrale era piena di gente che piangeva l’amico premuroso, il fratello sempre vicino, il sacerdote di Cristo che ha saputo donarci l’amore del Padre. Don Italo Calabrò, aldilà dalle molteplici iniziative da lui condotte, resta nel ricordo di tutti come uomo e sacerdote di fede profondamente vissuta nella storia del suo tempo, come compagno di strada dei più deboli, come credente, capace di intessere un’intera esistenza nel segno dell’amore e nell’incarnazione del messaggio evangelico.

Assieme a papa Giovanni XXIII, don Italo continua a benedire e illuminare il servizio ai fratelli che ancora oggi cerchiamo di portare avanti attraverso l’esperienza della Caritas Diocesana, della Piccola Opera Papa Giovanni, del Centro Comunitario Agape, della sua piccola e amata parrocchia di San Giovanni di Sambatello e di tutte le altre esperienze da lui avviate nella nostra diocesi per il servizio ai più poveri. E proprio nei luoghi di accoglienza, continua ad essere onorata la memoria di don Italo Calabrò, amico dei più poveri, servo fedele della sua Chiesa, testimone credibile dell’amore di Cristo per l’umanità.

(Questa biografia è stata curata dalla Piccola Opera Papa Giovanni, e la trovate in rete in maniera integrale e completa su questo sito: www.postulazionecausesanti.it).

Mimmo Nasone

“Ero uno dei suoi ragazzi”

Don Italo Calabrò è già santo nella memoria del popolo di Dio e dei poveri che ha servito e curato, santo perché capace di saldare il cielo alla terra. Santo perché testimone di Cristo che ci interpella ogni giorno e ci chiede di spendere la vita come risposta al suo amore, fedele e misericordioso.

…Un prete santo, un testimone che ci ha aiutato a credere, a sperare a vincere la tentazione della rassegnazione e dell’indifferenza. “Protesi in avanti”, – ci diceva don Italo – “senza mai smarrire la speranza, nonostante le delusioni, i fallimenti, le sconfitte, le difficoltà che abbiamo conosciuto e che certamente dovremo ancora affrontare, ma uniti in fraterna comunione di vita con gli ultimi, solidali con tutti coloro, credenti o meno, che condividono questa scelta di vita, certi che il male si vince solo con il bene, che la vita prevarrà sempre sulla morte”.

…Sono tra coloro che indegnamente era presente quel sabato pomeriggio del 12 maggio 1990. Don Italo il mese prima aveva avuto l’amara notizia della gravità della sua malattia e sapeva che aveva i giorni contati. Ci radunò a casa sua e ci parlò per più di mezz’ora. Scelse il brano dell’addio di San Paolo, agli anziani di Efeso, una delle pagine più belle dell’apostolo: «Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia.. vi è più gioia nel dare che nel ricevere». Quella sera don Italo ci consegnò il senso della sua vita, di tutto ciò che insieme abbiamo condiviso, e che dobbiamo continuare a condividere, e ci raccomandò di rileggere quel brano assieme al salmo 72 e alla Passione raccontata nel Vangelo di Matteo. Ci fece capire il senso profondo della preghiera: «Anche se non abbiamo sempre dato tanto spazio alla preghiera come momento a sé, credo che abbiamo pregato in tutta la nostra vita. Ogni volta che abbiamo lottato per gli ultimi, ogni volta che ci siamo fatti carico di nuove situazioni, era il Signore che pregava! Abbiamo trovato difficoltà, contrasti, ma sempre abbiamo aperto, abbiamo accolto, abbiamo amato: questa è preghiera!»

.…Disoccupazione giovanile e mafia sono i due punti su cui concentra il suo impegno per il Sud. Non cessa mai di invocare un deciso intervento dello Stato per una reale crescita occupazionale, come argine al degrado della convivenza civile, allo strapotere mafioso e al dilagare di metodi clientelari e corrotti nella gestione della cosa pubblica e nella classe politica. E’ anche l’ispiratore del documento del gennaio 1990 con cui il Consiglio Presbiterale della diocesi di Reggio Calabria – Bova denuncia atti d’intimidazione contro sacerdoti della diocesi, che susciterà enorme scalpore sulla stampa e nella Chiesa italiana.

Nei suoi scritti troviamo una pagina molto significativa che rivela la sua alta spiritualità: “Il Signore mi ha potato e purificato più volte: dolori fisici e prove morali, sofferenze, angosce, delusioni, difficoltà, perché io portassi più frutto. Mi ha anche umiliato, perché non montassi in superbia e sicura fosse la mia rovina. Ti benedico Signore. Potami ancora, quando e come tu vuoi, ma fa che nell’ora della prova ti ami ancora. La prova non è fine a se stessa, ma è per la vita”.

…”I poveri”, ci diceva – “sono i nostri padroni. I poveri sono Cristo, l’ottavo sacramento”. Nel suo testamento spirituale lo stesso don Italo raccoglie in una breve frase il senso più profondo della sua esistenza: “Amatevi tra voi, di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada, nessuno escluso, mai! E’ questo il comandamento del Signore”. Il Vangelo era la legge ed il riferimento fondativo della sua esistenza che ha consumato nella continua testimonianza  dell’amore di Cristo. Impegnato fin da giovane in delicati e difficili incarichi pastorali, mise sempre al centro della sua vita sacerdotale il servizio ai più poveri.

Il giorno delle sue esequie fu salutato da quasi tutti i poveri che aveva servito. La Cattedrale era piena di gente che piangeva l’amico premuroso, il fratello sempre vicino, il sacerdote di Cristo che ha saputo donarci l’amore del Padre. Don Italo Calabrò, aldilà dalle molteplici iniziative da lui condotte, resta nel ricordo di tutti come uomo e sacerdote di fede profondamente vissuta nella storia del suo tempo, come compagno di strada dei più deboli, come credente, capace di intessere un’intera esistenza nel segno dell’amore e nell’incarnazione del messaggio evangelico.

Nella Piccola Opera Papa Giovanni don Italo buttò un seme di amore che in questi anni è cresciuto e si è moltiplicato grazie all’impegno generoso e sapiente di tanti amici che sono rimasti fedeli alle motivazioni originarie. Attraverso la sua testimonianza, innanzitutto, richiamava la Chiesa e la società a essere attente ai bisogni dei fratelli emarginati. Da vero profeta non si limitava a elencare i diritti dei poveri ma a gridarli a partire dalla sua vita. Gli ospiti e i dimessi dell’Ospedale Psichiatrico, le ragazze madri, i barboni, i minori abbandonati fuori e dentro gli istituti, i disoccupati, erano per don Italo persone da servire, da liberare dall’emarginazione, da restituire alla dignità d’uomini.

La sua carità non aveva limiti: attenta, premurosa, umile. La riconduceva sempre a Cristo. “Siamo servi inutili”, era una citazione che amava ricordare ogni qualvolta magari eravamo orgogliosi per aver realizzato qualche buona azione o per essere riusciti in qualche iniziativa. Apriva continuamente nuovi “fronti” di servizio per i fratelli in difficoltà: iniziando di solito con pochi strumenti realizzava esemplari opere educative.

Uomo di grande apertura e coraggio, sa precorrere i tempi e cogliere i segni del cambiamento: la scelta dei poveri e la promozione del volontariato in anni in cui tali scelte non erano prive di ostacoli e incomprensioni; l’impegno per la pace e la non violenza (è tra i primi in Italia a sostenere e a lobiezione di coscienza alternativa al servizio militare…; l’apporto della Chiesa per il Mezzogiorno.

Condannò la mafia indicando alla comunità ecclesiale e civile la via della ferma denuncia. S’impegnò per fare uscire dagli istituti quanti più bambini, malati mentali, donne fosse possibile promovendo anche la dimensione della giustizia per la realizzazione di leggi e strutture più umane e adeguate.

Negli ultimi giorni la vita di don Italo, quelli dell’ultimo pezzo di strada più faticoso e umanamente incomprensibile, sono stati il sigillo alla sua santità. Si spegneva lentamente. Il suo corpo si faceva sempre più piccolo e fragile. Non parlava più. Non sorrideva. Non correva. Non ci richiamava. Non ci incoraggiava. Non celebrava. Non curava. Non consolava. Attorno a lui tutto sembrava soffrire. E tuttavia in quegli ultimi giorni della sua vita ha continuato a darci la lezione più importante, quella a cui teneva di più: credere che la vita è un dono di Dio da consumare a servizio dei fratelli con la consapevolezza che per portare frutti di pace e di amore, di liberazione e salvezza, bisogna fare l’esperienza del chicco di frumento che per rinascere a vita nuova deve morire.

Tutto si compiva. E nell’ora della piena manifestazione del limite di ogni uomo, don Italo continuava in qualche modo a comunicare con noi. Mentre si spegnava il suo respiro, don Italo illuminava la nostra vita chiedendoci di credere e di accogliere l’invito di Gesù: “vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.

(Mimmo Nasone, oltre che essere stato uno dei “ragazzi” di Don Italo Calabrò, è anche autore di una biografia di don Italo piena di aneddoti e di riferimenti alla sua vita personale che non tutti conoscono, e che ci è stata di grande aiuto. Oggi Mimmo Nasone milita da protagonista tra le fila di don Luigi Ciotti nella sua associazione “Libera” nata in Calabria per la prima volta proprio grazie all’impegno del “prete santo” di Sambatello)

IL SUO TESTAMENTO SPIRITUALE

All’ improvviso, nel mese di aprile 1990, il Signore mi ha chiaramente avvertito che la mia giornata volgeva rapidamente al declino. Lo ringrazio, dal profondo del mio cuore, perché, contro ogni mio merito, mi ha donato tanta pace e piene disponibilità nell’accettare la sua volontà. Intendo espressamente professare la fede secondo il Credo della Chiesa una, santa, cattolica, apostolica. Ringrazio il signore di avermi creato, fatto cristiano, chiamato al sacerdozio, donato una famiglia esemplare, di avermi chiamato a svolgere il ministero pastorale in questa santa Chiesa reggina, in molteplici settori di apostolato, soprattutto nelle opere di carità e di promozione sociale. Chiedo perdono a Dio “ricco di misericordia” per tutte le colpe della mia vita; domando parimenti perdono a tutti coloro che sia pure involontariamente avessi offeso; credo nulla da perdonare ad alcuno, perché tutti, sempre mi hanno voluto tanto bene. Un pensiero, un saluto memore e grato ai miei fratelli, cognati, nipoti, parenti tutti: uno, per uno. A S.E. l’Arcivescovo Sorrentino, che mi ha riservato fiducia e affetto, al venerato Mons. Ferro, padre amatissimo, ai Sacerdoti tutti, ai fedeli carissimi della mia parrocchia di San Giovanni di Sambatello, ai fedeli e generosi collaboratori della Curia, della Caritas prima, della Piccola Opera Papa Giovanni, delle opere dell’Agape……..un grazie vivissimo, la carità di una preghiera. Un particolare segno di riconoscenza sento di dovere esprimere ai sanitari, al personale paramedico che si sono prodigati per me con dedizione impareggiabile. Alla Chiesa reggina che si è raccolta in corale manifestazione i preghiera chiedo di assistermi sino alla fine perché io sappia e possa compiere la volontà di Dio. Ai fratelli dell’Agape domando di continuare a impegnarsi sempre, nel nome di Cristo, per i fratelli più emarginati, in piena comunione ecclesiale con il Vescovo, accogliendo anche le sollecitazioni che verranno anche da coloro che, pur con diverse motivazioni culturali e ideologiche, possono con noi ritrovarsi nel sostenere e promuovere i valori della libertà, della giustizia, della pace. Amatevi tra voi, di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla strada, nessuno escluso, mai! È questo il comandamento del Signore. Offro a Dio la mia vita perché viviate uniti nell’amore! Maria SS. Madre della Consolazione, che ha vegliato sempre sul mio sacerdozio preghi per me.

Don Italo Calabrò

Reggio Cal. 9 giugno 1990

Author: pino nano

Giornalista, Autore televisivo, Inviato Speciale, 35 anni in RAI, dal 2010 al 2019 Caporedatore Centrale Responsabile dell'Agenzia Nazionale della TGR e dal 2001 al 2010 Caporedattore della Sede RAI della Calabria. Ha scritto 12 libri diversi sulla condizione sociale della Calabria e dal 2020 cura per Calabria Live la rubrica dedicata alle storie di eccellenza.

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