I funerali di Walter Pedullà

Walter Pedullà

Walter Pedullà, l’addio della Sapienza di Roma

di Pino Nano

Attorno alla salma, questa mattina, nell’aula magna della Facoltà di Lettere, il gotha dell’Ateneo. Non poteva che essere così. Funerali del tutto solenni lunedì mattina a Roma per l’ultimo saluto a Walter Pedullà, che della facoltà di lettere è stato non solo uno dei grandi protagonisti del Novecento, ma anche uno dei padri fondatori.
Il saluto ufficiale e il cordoglio dell’intero Ateneo viene dal rettore della Sapienza Antonella Polimeni, “Esprimo -sottolinea la Rettrice de La Sapienza- il cordoglio di tutta la Comunità Sapienza per la scomparsa del nostro professore emerito Walter Pedullà. Docente, critico letterario, scrittore e uomo delle Istituzioni, Pedullà lascia un’impronta indelebile nella letteratura, nella formazione accademica e nel panorama culturale del Paese tutto. Per quasi 50 anni questi locali e quest’aula sono stati la sua casa e alla famiglia di Walter Pedullà vada il nostro grazie per aver scelto loro di ricordarlo e di rendergli l’ultimo saluto proprio in quest’aula e in questo spazio che per quasi mezzo secolo lo hanno visto protagonista e professore nel senso lato della parola”.
Walter Pedulla -è questo il messaggio centrale dell’orazione funebre che la facoltà di lettere Moderne gli dedica e che affida alla professoressa Arianna Punzi– ha saputo portare nelle aule universitarie la forza e il rigore per la lettura dei testi, mai trasformati in pretesti, è stato un maestro capace di leggere i suoi autori, e di interpretare e difendere lo sperimentalismo di autori come D’Arrigo Malerba, Pizzuto, un maestro che ci ha insegnato a rivedere a rileggere e a ripensare la narrativa del Novecento e in questa che è stata la sua casa per 50 anni, fino al 2005 anno in cui è poi andato in pensione, Walter Pedullà ha vissuto e ha trasmesso tutta la sua grande personalità di intellettuale moderno e di grande fascino europeo”. Un uomo che sapeva esserti anche amico perché coltivava l’amicizia come una religione di vita- aggiunge Giulio Ferroni anche lui professore emerito e storico della letteratura- che porta in questa sede il senso del suo affetto personale e privato per il grande intellettuale scomparso, e che lo incontrò per la prima volta al suo esame di letteratura italiana con il prof. Giacomo De Benedetti e di cui Walter Pedullà era allora già assistente. Ma piena di ammirazione personale, e quasi intima, per l’uomo viene dal ricordo che ne fanno qui Gianni Riotta e lo stesso Giuseppe Lupo.
Francamente Walter Pedullà non si poteva ricordarlo in maniera più bella. Torna in mente in quest’aula il suo bellissimo libro autobiografico “Il pallone di Stoffa” e in cui era stato lui stesso per primo a raccontare come la sua facoltà fosse diventata in tutti questi anni fucina di artisti, giornalisti, attori, e personaggi che hanno poi segnato la storia culturale e sociale del Paese. Un racconto avvolgente, pieno di riferimenti personali, a partire dal ricordo commovente che fa di suo padre, che faceva il sarto a Siderno, e che per mantenerlo all’università era costretto a lavorare giorno e notte fino alla sua laurea. Il racconto a tratti sconcertante dell’estrema povertà del Sud che lui aveva vissuto dall’insegnamento universitario, della militanza socialista nelle campagne prima e nei palazzi della politica romana dopo, del suo impegno per ogni “sperimentalismo letterario”, dei suoi incarichi alla direzione delle massime istituzioni culturali del Paese, un saggio che varrebbe la pena di adottare nelle scuole e i cui Walter Pedullà conduce i suoi lettori alla scoperta dell’Italia del secondo Novecento, cucendo assieme centinaia di aneddoti esemplari che gettano nuova luce sui maggiori protagonisti del secolo scorso. “Non solo per ridere”, diceva lui. I realtà il 13 dicembre 2010 Walter Pedullà ebbe un arresto cardiaco; un minuto dopo, i medici del pronto soccorso rimisero il suo cuore in movimento grazie a un potente defibrillatore, e se “Pedullà è sempre stato, per indole e poetica, un uomo della commedia più che della tragedia, superata quella soglia non c’era più alternativa: la sua vita ormai -scriveva di se stesso- poteva raccontarla unicamente dalla prospettiva di chi ha imparato a ridere di tutto e di tutti perché non appartiene più a questo mondo e, senza smettere di amarlo, ha conquistato la distanza necessaria per smascherare le passioni e le illusioni, a cominciare dalle proprie.
In prima fila c’è il direttore del Dipartimento di Lettere Moderne Marco Mancini, accanto a lui il figlio Gabriele Pedullà e la sua famiglia. Poi tantissimi amici del vecchio “professore calabrese” arrivati da ogni parte d’Italia per salutare quello che molti di loro considerano ancora un guru della letteratura italiana. Volti noti del mondo della cultura e dello spettacolo, del giornalismo e della politica, ma anche il suo vecchio autista personale, Luigi Garritano, calabrese come lo era il suo “presidente”, originario di Longobardi un paesino della provincia di Cosenza, e che per oltre 30 anni lo ha accompagnato nei posti più impensabili d’Italia e d’Europa. Prima come professore universitario, e poi ancora come consigliere d’amministrazione e come Presidente della RAI.I primi ad arrivare sono i giornalisti Enzo Romeo e Gianni Riotta, Rosario Sprovieri, dopo di loro Gianni Letta che con lui ha condiviso anni di impegno sociale e politico pur se da fronti diversi. La salma sistemata al centro dell’aula magna della facoltà di lettere, dove di solito si tengono le cerimonie di laurea, e che il vecchio “professore calabrese” considerava la sua vera casa.

“Il primo ricordo che mi viene in mente – racconta Enzo Romeo, storico Vaticanista del TG2-è il suo passaggio davanti a casa mia, a Siderno, tutti i giorni d’estate. Abitava a due isolati di distanza e ogni mattina andava al mare coi remi della barchetta sulle spalle e con alla mano suo figlio, il piccolo Gabriele. Io accennavo un timido saluto al professore, che conoscevo solo di fama, e lui rispondeva col suo inconfondibile sorriso, stampato sul testone da calabrese d’hoc, a cui i folti capelli arruffati facevano da criniera.
“…Anni dopo, quando fui chiamato al Tg1, Nuccio Fava chiese informazioni al prof. Pedullà, allora consigliere d’amministrazione della RAI. Pedullà sapeva poco o niente di me. Gli avevo spedito un mio saggio sul confino di Cesare Pavese a Brancaleone, ma non mi aveva risposto e confesso che ero rimasto deluso. Il professore, però, conosceva bene la mia famiglia. Il mio nonno materno, medico condotto, nel dopoguerra era stato senatore della DC, dunque “avversario” politico della sinistra, ma in paese era considerato il dottore dei poveri, che curava gratis; e dunque era sulle stesse lunghezze d’onda del socialista Pedullà. Fatto sta che il professore diede ottime referenze del sottoscritto, ma di questo non seppi mai nulla, fin quando – ormai in pensione – il buon Nuccio non mi raccontò l’episodio.
“Siderno è stato il nostro comune brodo di coltura. La scuola media è intitolata a Gesumino Pedullà, il fratello maggiore di Walter, perseguitato dai fascisti e morto in esilio durante il ventennio. “Con la morte di Gesumino Dio scomparve dal mio orizzonte e da allora non l’ho mai più ritrovato”, mi confidò nella sua ultima intervista, ormai novantenne. Pedullà vendette la casa sidernese parecchi anni fa, preferendo il buen ritiro umbro per i suoi soggiorni fuori Roma. Rimangono però i ricordi, che ha voluto fissare ne Il pallone di stoffa, regalandoci un quadro suggestivo della Calabria della sua infanzia e giovinezza, segnata da grande miseria e da altrettanto grande voglia di riscatto, da cui l’autore ha tratto la forza che lo ha condotto fino all’apice del panorama culturale e politico italiano”.

Un vero testimone del nostro tempo, un poeta, un visionario, un intellettuale geniale e fuori dagli schemi, instancabile illuminista, un uomo eccezionalmente romantico, uno scrittore e un saggista profondamente legato alla sua terra di origine, ma anche agli uomini che gli stavano sempre attorno. Lo ricorda meravigliosamente bene, da figlio, lo stesso Gabriele: “ricordo di essere entrato per la prima volta in quest’aula quando ero ancora alle superiori, e venivo a sentire di straforo le lezioni di letteratura che mio padre faceva ai suoi studenti”. Palpabile nell’aria la dolcezza e l’ammirazione del figlio per il padre.
Fa quasi tenerezza anche l’immagine di questa bara di legno chiaro che entra in maniera quasi anonima nell’aula magna della facola di lettere della Sapienza per il ritorno a casa di uno dei grandi “professori” della Repubblica. Per tutta la mattinata ho sperato che alla fine comparisse da lontano un simbolo qualunque della sua terra di origine, una bandiera a lutto, il gagliardetto del comune di Siderno, un manifesto della sua Locride, un qualunque rappresentante istituzionale che portasse a questa cerimonia il saluto e la riconoscenza dei calabresi, ma nulla di tutto questo. Peccato. (Pino Nano)

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