Luigi Carnevale, L’Ombra di Papa Francesco

luigi carnevale
Luigi Carnevale in uno dei suoi tanti incontri privati con Papa Francesc

di Pino Nano

«In questi mesi segnati dalla pandemia», dice Papa Jorge Mario Bergoglio, «avete saputo modulare bene il vostro lavoro, coniugando le disposizioni sanitarie e le norme dell’ordine pubblico con le esigenze dei pellegrini. Si deve anche alla vostra professionalità se la vita intorno a questi luoghi sacri e alla Città del Vaticano si è svolta con serenità. Questo è frutto del vostro lavoro, grazie! La vostra vigilanza diurna e notturna tutela le persone che si recano a pregare in Basilica e che vengono ad incontrarmi. La vostra puntuale attività facilita anche le manifestazioni spirituali e religiose che si tengono in piazza, come pure le visite dei turisti».

3 febbraio 2022, Papa Francesco riceve in udienza straordinaria le donne e gli uomini dell’Ispettorato di Pubblica sicurezza in Vaticano, lo speciale corpo della Polizia di Stato istituito ufficialmente il 30 marzo 1945, e che oggi conta circa 160 unità,“vigili custodi della Sacralità di questi luoghi”, testimoni silenziosi, affiancati da un nucleo di Polizia stradale che cura la viabilità per le uscite del Pontefice oltre le mura Vaticane.

«La vostra -aggiunge il Papa- è un’opera considerevole e delicata, a cui attendete con diligenza e sollecitudine, sforzandovi, anche nelle situazioni più complesse, di essere pazienti e disponibili. Vorrei pure ricordare la vostra assidua collaborazione in occasione dei miei spostamenti a Roma o delle mie visite pastorali in Italia. Vi sono grato anche per lo stile: la vostra è una presenza discreta e nello stesso tempo efficace, resa ancora più proficua dalla collaborazione con la Gendarmeria Vaticana”.

Sono gli angeli custodi di Papa Francesco, i ragazzi che lo seguono giorno e notte nei suoi movimenti fuori da Santa Marta, i suoi “seguaci” più fedeli, perché di lui ormai sanno tutto e il contrario di tutto, guardie del corpo e non solo, amici fidati, confessori privilegiati del Pontefice, compagni di vita e di avventura del Capo di Santa Romana Chiesa.

“Questo dialogo fra voi e la Gendarmeria -sottolinea Papa Francesco- è molto importante e vi ringrazio tanto di portarlo avanti. Oltre ad esprimervi la mia gratitudine, vorrei incoraggiarvi, perché il vostro servizio, a volte arduo, sia sempre sostenuto dalla sua motivazione fondamentale, cioè prendersi cura delle persone, tutelando la dignità e l’incolumità di ciascuno. Questo è tanto prezioso: la persona al centro, sempre. Forse qualcuno viene con richieste o a volte con problemi o con esigenze che non sono giuste, sono un po’ pesanti, a volte. Ma grazie della vostra pazienza, e perché trattate le persone come sono, nella vita. Così Dio tratta noi!”.

Luigi Carnevale accolto da Papa Francesco nel giorno del suo commiato dal Vaticano

Non c’è occasione pubblica, manifestazione, raduno, trasferta fuori dalla sua residenza abituale che il Papa non abbia accanto questi poliziotti così speciali, i migliori sulla piazza, educati e preparati ad affrontare le situazioni più difficili e più critiche che ogni manuale di pronto intervento possa immaginare o prevedere, pronti a sacrificarsi per lui in ogni momento del loro impegno al servizio del Santo Padre.

Agenti speciali, poliziotti super addestrati, uomini e donne che vivono la loro vita e la loro dimensione nel silenzio e nell’anonimato, e che hanno il compito prioritario di badare alla vita e alla sicurezza del Papa.

In Vaticano nessuno li vede. Ma loro ci sono sempre, e come se ci sono.

Sulla piazza che guarda alla Basilica si sente il loro odore, si avverte la loro presenza, si coglie la forza della loro preparazione e delle loro infinite capacità tecniche. Insomma, un corpo speciale, vanto della Polizia di Stato, che non conosce ostacoli o problemi se è in gioco la sicurezza del Pontefice, o anche di chi viene semplicemente a trovarlo, o di quanti si avvicinano a Via della Conciliazione per salutare il Papa o anche per vederlo da lontano.

luigi carnevale raccontato da pino nano
Luigi Carnevale davanti alla Papa Mobile

Uomini dello Stato a cui il Paese non finirà mai di dire grazie per quello che ogni giorno fanno per tutti noi.

Bene, il capo di questo elitario e sofisticatissimo Nucleo di Polizia in Vaticano è stato fino a qualche settimana fa un ex ragazzo di Calabria, Luigi Carnevale, Dirigente Generale della Polizia di Stato, un uomo che al Viminale seguono e ammirano per la sua straordinaria storia professionale, costellata da successi sul campo e anche di prima grandezza. Non a caso oggi, dopo aver lasciato il suo ufficio in Borgo Sant’Angelo, Luigi Carnevale è diventato il Capo dell’Ispettorato della Polizia presso il Senato della Repubblica, incarico questo, come quello al servio del Pontefice, di altissimo profilo istituzionale, alle dirette dipendenze del Presidente del Senato, che è la seconda carica dello Stato, e alla guida di uno dei presidi della Polizia di Stato, quello di Palazzo Madama, considerati in assoluto tra i più “elitari” del Ministero dell’Interno.

Non uno qualsiasi, dunque, ma un poliziotto cresciuto a senso del dovere e rispetto della Repubblica, finito nel 1995 sulle prime pagine dei grandi giornali per via di un attentato che la mafia cosentina aveva deciso di organizzare sotto casa sua per eliminare quello che secondo i pentiti del tempo, in testa per tutti Franco Pino, veniva considerato il “nemico numero uno” delle cosche che governavano Cosenza città e provincia.

Luigi Carnevale, allora, era il Capo della Squadra Mobile di Cosenza, uno dei migliori in assoluto in Italia, e aveva capito così bene quali fossero gli ingranaggi gli interessi e le dinamiche della grande criminalià organizzata cosentina da meritarsi una sentenza a morte, un attentato dinamitardo che avrebbe dovuto essere eclatante, da realizzare immediatamente, e senza commettere nessun errore di sorta.Ne sarebbe andato di mezzo l’onore e il prestigio della ndrangheta cosentina. L’inatteso pentimento del boss Pino, che fece immediatamente recuperare gli ordigni  con i detonatori e i telecomandi, fu decisivo per evitare un epilogo che sembrava inevitabile. L’uomo quando vuole è coriaceo per lui fu come se la cosa non lo riguardasse per nulla, e continuò ad andare avanti a testa bassa, nonostante l’invito dei superiori a valutare l’assegnazione ad altra sede con le sue inchieste e le sue indagini lasciando del suo passaggio alla Squadra Mobile di Cosenza un segno indelebile del suo passaggio. Fu nominato poi capo della squadra mobile di Brindisi in un momento particolarmente difficile per la virulenza della Sacra Corona Unita nella gestione assai redditizia del contrabbando di sigarette e per l’arrivo di decine di migliaia di Albanesi che fuggivano dalla loro terra dando però origine anche a traffici di armi e droga. La promozione a Vice Capo della Squadra mobile di Roma, l’ufficio investigativo più prestigioso della Polizia di Stato  sancisce il riconoscimento del suo valore.

pino nano racconta luigi carnevale
Luigi Carnevale accanto a Papa Francesco in una delle tante visite di Stato in Vaticano

E’ questo il superpoliziotto che oggi organizza e vigila in prima persona sulla sicurezza della Seconda carica dello Stato, ma anche sulla sicurezza dei 200 Senatori della Repubblica che ogni giorno “vivono” Palazzo Madama.

La storia personale di Luigi Carnevale sembra quasi un romanzo d’appendice, lui è  uno di quei tanti figli del Sud che lascia la sua terra, nel suo caso la Calabria, perché il suo lavoro lo obbliga, diventa poliziotto perché ha il senso dello Stato dentro, visceralmente nel corpo e nello spirito, servitore fedele del suo Paese per passione, istintivo, intelligente, cocciuto, preparato ad ogni forma di sacrificio, determinato a fare onore al nome della sua famiglia e alla terra da dove è partito, e alla fine diventa tante cose diverse messe assieme, poliziotto, investigatore, uomo d’apparato, cordone ombelicale tra la politica e la Polizia di Stato, e passa indenne e con grandissima leggerezza dalle inchieste antimafia più delicate e complesse ai palazzi del potere, la Camera dei Deputati, la Commissione Bicamerale, la Commissione Antimafia, e infine nel cuore di Santa Romana Chiesa tra i palazzi vaticani e Santa Marta, alle corde di Papa Francesco, di cui diventa il custode amatissimo e preferito.

-Dottore se dovesse raccontare la sua vita da dove partirebbe?

Da Catanzaro Lido. Primo di tre figli maschi, sono nato il 18 giugno 1961 a Catanzaro, ma dopo aver esternato i primi vagiti presso il reparto di ostetricia del vecchio Ospedale Civile, ho fatto il mio primo ingresso nella casa che i miei avevano in via Murano, a Catanzaro Lido, dove risiedevano i miei genitori. Mio padre era un impiegato delle poste, originario di Squillace, mia madre, originaria di Bivongi, insegnava nelle scuole elementari, entrambi con alle spalle storie ricche di significati.

-Che ricordi si porta dietro?

Nel quartiere marinaro di Catanzaro Lido ho vissuto per circa tre anni, e i ricordi di quel periodo sono condensati in alcune foto in bianco e nero che mi ritraggono sul terrazzo di casa mia all’ultimo piano della palazzina dove abitavo, e nei racconti dei miei genitori Papà mi ricordava come già a due anni, quando ero in grado di corricchiare, andavo incontro ai ragazzi che giocavano a calcio pretendendo che mi passassero il pallone. Si vedeva già da allora che avevo una forte passione per il calcio, passione che negli anni mi ha visto impegnato anche a livello agonistico in alcune squadre cittadine a partire dal settore delle giovanili dell‘ Us Catanzaro.

-La mamma?

Mia madre, invece, mi ricordava sempre di quando ero riuscito ad arrampicarmi sul parapetto del terrazzo. Sarebbe bastato un altro passo e mi sarei congedato anticipatamente dalla vita. Invece lei, trattenendo lo spavento, allargando le braccia, mi invitò ad andarle incontro e dopo avermi afferrato cadde svenuta con me addosso. Ho vissuto altri momenti nella vita in cui il passaggio all’aldilà sembrava cosa fatta. Anche nel 2001 quando il mio cuore mi fece capire che non accettava più i miei ritmi, me la cavai. Mi dissero in molti che Dio aveva in serbo  cose importanti per me e non potevo salutare anticipatamente. Mentre lasciavo l’Ispettorato Vaticano, mi chiedevo se non avessi assolto a tali impegni avendo prestato il mio servizio a tutela del Vicario di Nostro Signore.

-Papà, mamma e due fratelli?

Il 23 di agosto del 1963 nella casa di via Murano nasceva mio fratello Claudio.Non ci crederà ma lo hanno chiamato così perché mio padre era un fan di Claudia Cardinale e l’ebbe vinta su mia madre, che voleva chiamarlo Vincenzo come il padre. Cercarono una mediazione tra di loro e alla fine decisero di chiamarlo come il santo del giorno, e si  si accorsero che il 23 agosto era proprio il giorno di San Claudio.

-Immagino la delusione della mamma?

Mio padre in compenso prese l’impegno solenne che si sarebbe chiamato Vincenzo il prossimo figlio maschio.

-Poi un giorno lasciate Catanzaro Lido?

Accadde che mia madre, che era una insegnante, venne assegnata come prima sede di ruolo alle scuole elementari di un paese chiamato Cardinale. E lì la mia famiglia si trasferì, era il 1964. Lo stesso fece mio padre, che da Catanzaro Lido si trasferì prima a Chiaravalle Centrale e poi a Cardinale.

-Che anni sono stati a Cardinale?

L’arrivo a Cardinale ho vissuto per circa 5 anni, fino alla terza elementare, coltivando la mia grande passione per il calcio.

-Un ricordo particolare di quel periodo?

Ne ho uno che indimenticabile. Ero ancora in seconda elementare, e una mattina che l’insegnante non si era presentata in classe per un malanno io tenni impegnati i miei compagni di scuola in varie attività fino al suono della campanella, senza che nessuno se ne fosse mai accorto. Ricordo ancora che il direttore della scuola rimase sconvolto per il fatto che un ragazzo di 7 anni fosse stato capace di tanto.

-Che aria tirava in quegli anni a Cardinale?

Nel paese c’era tanta povertà. Molti bambini vivevano con i nonni, perché i loro genitori erano emigrati in prevalenza all’estero in cerca di lavoro. Io ero un privilegiato per il solo fatto che d’estate andavo a fare il bagno al mare, mentre la gran parte dei miei compagni, che il mare non lo aveva mai conosciuto, si rinfrescava nelle acque del fiume Ancinale. Per loro il mare era un elemento della natura pericoloso, avendo letto tutti loro nelle avventure di Pinocchio che ci si poteva imbattere facilmente in una balena.

-Fa un certo effetto parlare di Cardinale in un posto come questo, dove vivono tanti cardinali veri…

 Quando fui incaricato di Dirigere l’Ispettorato qui in Vaticano pensai che agli anni trascorsi a Cardinale quasi avessero avuto un significati profetico. Stavo per prestare la mia opera a servizio del Primo fra i Cardinali e con tanti altri Principi della Chiesa ho intrattenuto gratificanti rapporti professionali e spirituali..

-Torniamo in Calabria, a un certo punto lei lascia Cardinale perché la sua famiglia si posta a Catanzaro?

In realtà le ultime due classi della scuola elementare io le ho frequentate a Catanzaro Lido, dove nel frattempo ci eravamo nuovamente trasferiti, e questa volta a causa di problemi di salute accusati da mia madre e molto acuiti dal freddo umido di Cardinale. Per me sono stati due anni intensi, sono ancora pieno di ricordi. Pensi che a scuola avevo uno straordinario insegnante, il maestro Vincenzo De Filippis, reggino dalla R rinforzata, era così tanto preparato quanto elegante, nel tratto e nei modi e con cui avevo un bel rapporto.

-Non mi dirà che anche lei era uno studente modello?

Mettiamolo in questo modo, a scuola io avevo un ottimo profitto, ma ero anche capace di marinare  spesso la scuola per andare a raccogliere le lumache in un grande prato vicino casa dopo una notte di pioggia, o se giocava la nazionale di calcio e la mia classe aveva i corsi pomeridiani. Tutto questo non sfuggiva al mio maestro che se ne lamentava anche direttamente con mia madre che insegnava nella stessa scuola elementare di Via Murano.

-Mi pare di capire, anni molto belli e pieni di vita?

Io li ricordo così, pieni di vita e di tante emozioni diverse con il poco che si disponeva. Tanti dei miei ricordi più belli sono legati al soggiorno, in un albergo allora di recente costruzione a pochi passi dalla mia casa nel quartiere Casciolino, delle squadre di Serie A, categoria nella quale era approdato il Catanzaro nel 1971.

-Rieccola la sua passione per il calcio…

Sa cosa ricordo ancora come fosse appena ieri? Il giorno in cui arrivò da noi la squadra del  Milan. Era la squadra del mitico Rivera, con il suo allenatore Nereo Rocco, e per fare la loro tradizionale passeggiatina pomeridiana, il sabato pomeriggio, i giocatori si affidarono a noi ragazzini del luogo, che li accompagnammo per le vie del quartiere con grande orgoglio. Sa cosa ricordo anche? Le ragazze che dalle finestre si affacciavano incantate a guardare Rivera, e ricordo come fosse appena ieri come tutti i calciatori del Milan quel giorno si prestarono ad attraversare alcune inferriate che recingevano un terreno privato dove noi di solito giocavamo, e che erano state da noi allargate per consentirci una fuga immediata nel momento in cui venivamo scoperti dal custode, cosa che accadeva assai spesso. E ricordo in particolare come Nereo Rocco, a causa della sua mole imponente, non fosse riuscito a passarvi dentro. Lui a differenza di tutti gli altri fu invece costretto a fare un giro più lungo.

-Se dovesse indicarmi un giorno felice della sua vita da bambino cosa mi risponderebbe?

Che era il 1970, il 24 di agosto, e quel giorno nasceva il mio secondo fratellino, e a cui finalmente venne dato il nome di Vincenzo, anche se poi per tutti noi era ed è rimasto Enzo. Il più felice quel giorno era mio padre che tra il serio e il faceto non faceva altro che ripetere di essere fiero di essere riuscito a mantenere l’impegno che aveva preso solennemente con mia madre quando nacque il mio primo fratello, che anziché come il nonno venne chiamato Claudio.

-Un giorno lasciate anche Catanzaro Lido e vi trasferite ancora una volta a Catanzaro città?

Nel 1972 ci trasferiamo a Catanzaro dove i miei acquistarono casa in via De Riso. Era una strada senza uscita che per i numerosi ragazzi che la popolavano era come un vero e proprio fortino all’interno del quale trascorrevamo ore e ore a giocare a calcio, e a condividere le esperienze giovanili di quegli anni. Frequentavamo tutti la Parrocchia dell’Osservanza, e lo facevano sotto la guida generosa e carismatica di Don Dante Sabinis.

-C’è sempre il ricordo dii un prete in un ragazzo del Sud…

L’ oratorio e la parrocchia, a quei tempi, erano la nostra seconda casa. A lui don Dante Sabinis mi legano tanti ricordi belli.

-Me ne dà uno in particolare?

Ricordo che 1981 lo accompagnai a Cosenza dove lui doveva celebrare le nozze di un ex ragazzo di via De Riso, lui si chiamava Pietro Cantafio, era uno dei tecnici più stimati e più bravi della sede Rai di Cosenza. Pietro si sposava quel giorno con una sua collega, Olivia Coppola, ed esattamente eravamo nella Chiesa di Santa Teresa del Bambin Gesù.

-È strano che lei ricordi così bene il giorno di un matrimonio come tanti?

-In realtà non fu un matrimonio qualunque. Quel giorno parcheggiai la mia auto di fronte al civico 7 della via omonima Santa Teresa e non immaginavo che in quel palazzo abitasse una ragazza che avrei poi incontrato a distanza di un anno alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catanzaro, e che in quel palazzo avrei poi abitato con lei dopo averla sposata nell’aprile del 1990. Per chiudere il cerchio ottenni che fosse proprio Don Dante Sabinis a celebrare anche il mio matrimonio.

-Mi racconta della sua grande passione per il calcio?

Fra i ricordi più esaltanti che mi porto dentro, dei primi anni vissuti a Catanzaro, specie per un ragazzino come me che aveva vissuto in un paesino dell’entroterra, mi porto dentro il giorno in cui, a tredici anni, partecipai ad una selezione di giovanissimi aspiranti calciatori voluta dall’Us Catanzaro. Eravamo in 40 circa e fummo prescelti  in 3. Ad osservarci attentamente c’era il mitico Sasà Leotta, era l’allenatore che tanto ha dato al Catanzaro calcio dalle giovanili fino alla prima squadra. Al termine del provino mi chiese di che classe fossi, ed io con tutta l’ingenuità di cui ero capace risposi ”della 3 D”, riferendomi a quella frequentata a scuola. In realtà voleva sapere solo quale fosse l’anno della mia nascita, e quando scoprì che avevo solo 13 anni rimase impressionato perché in realtà io allora ero molto bene impostato e fisicamente ben messo.

-So che ha una predilezione per Gianni di Marzio anche?

Altro grande allenatore. Ricordo Gianni Di Marzio, che era l’allenatore della prima squadra, quando durante una partitella che stavamo svolgendo all’interno del Ceravolo, vedendomi dribblare con grande facilità, si mise a urlare dicendomi di non fare il gradasso con quelli più piccoli di me. Ma quando poi seppe che il più piccolo del gruppo in realtà ero io, a fine partita mi prese da parte e mi fece fare degli esercizi con la palla sotto il settore dei distinti per vedere come me la cavavo di piatto, di collo e di controbalzo.

-Cosa le disse?

Rimase colpito, ma mi intimò però di tagliarmi i capelli che avevo lunghi allora. Io naturalmente non ero disposto a farlo, e ogni qual volta che lo vedevo da lontano ricordo che indossavo un cappellino di lana per non farmi riconoscere.

-È vero che la mise anche alla prova?

Ricordo che un pomeriggio, proprio mentre ci avviavamo in un campetto adiacente lo stadio, mi fece chiamare dai compagni di squadra. Io temetti che mi volesse controllare i capelli, invece mi disse che aveva fatto venire un bravo difensore e che era curioso di vedere come me la sarei cavato. Andò bene anche quella volta.

-Ma lei è mai sceso in campo?

Eccome se ci sono arrivato. Una domenica durante un incontro Catanzaro Como che le aquile vinsero per 1-0, successe un episodio spiacevole. Di Marzio aveva costruito una formazione fortissima in difesa e quando riusciva a passare in vantaggio si chiudeva senza lasciare spazi agli avversari. All’epoca non c’erano in campo molti palloni come ora e i raccattapalle con un po’ di malizia contribuivano a fare passare il tempo, considerando che non era previsto ufficialmente il cosiddetto recupero a fine partita. In quella partita l’arbitro si deve essere così talmente spazientito che espulse tutti gli otto raccattapalle, e dalla domenica successiva ne furono scelti altri 8, e tra questi fui prescelto anche io.

-Immagino un’emozione immensa?

Non ha idea di cosa significhi stare a bordo campo della partita della tua squadra del cuore. A dir poco esaltante. Ricorso che mi sentii protagonista della vittoria contro il Palermo nell’ultima partita del campionato 1974/75, vittoria che consentì alle aquile di accedere allo spareggio col Verona  per la promozione alla massima serie, sfumato poi tristemente in una partita preceduta dalla morte di un tifoso che si stava recando allo stadio di Terni. Il gol dell’1-0 al Palermo era stato siglato da Banelli, calciatore che, non immaginando quegli imprevedibili sviluppi, aveva fissato le nozze proprio la sera dopo la partita e a cui presero parte centinaia di tifosi esaltati. Il gol era scaturito da un fallo laterale battuto proprio nel settore di mia competenza sotto la tribuna est. Si era nel secondo tempo, e non sembrava che la squadra fosse capace di sbloccare la partita. Io ero molto sfiduciato e non mi accorsi che la palla era uscita nella zona di mia competenza. Dagli spalti giungevano urla e parecchi improperi che mi fecero sobbalzare e correre a recuperare la palla. Da quel fallo laterale scaturì il gol successivo, e io mi sentì compartecipe dell’impresa.

-Ma lei si ricorda ogni dettaglio di quel giorno?

Io ricordo ancora tutto, come se il tempo non fosse mai andato in avanti. Pensi che quando in una delle azioni finali in cui il Palermo tentava disperatamente di pareggiare rischiai l’espulsione anche io. Il pallone era uscito dalle mie parti e io lo recuperai con studiata lentezza e quando il Capitano dei rosanero, Vanello, a tutta velocità mi venne incontro per riceverlo, io invece lo scaraventai lontano. L’arbitro Michelotti che era a centrocampo si accorse della scorrettezza, e mi raggiunse fischiando come un indemoniato minacciandomi infine di espellermi. Me la cavai con grande paura, seguita da una gioia infinita dopo il triplice fischio. Ricordai questi episodi a Gianni Di Marzio alcuni anni fa, quando con lui iniziai un affettuoso rapporto fatto di messaggi e telefonate soprattutto a Pasqua e a Natale. Quando due anni fa scoppiò il covid ricordo che si rifugiò in Calabria per preservare i suoi polmoni malandati, rifugiandosi in una terra che lo aveva eletto a vero e proprio idolo, visti i successi straordinari ottenuti anche con i rossoblù cosentini.

-Di quegli anni fatti di tantissimo sport vede o sente ancora qualcuno?

Miei grandi amici sono ora Fausto Silipo e Massimo Palanca, eroi intramontabili di una generazione di tifosi che ha gioito come non mai e che ancora oggi spera di tornare a farlo.

-Degli anni vissuti al liceo Galluppi di Catanzaro cosa ricorda?

Devo ricordare anche due insegnanti speciali delle Scuola Media “Patari”, la Professoressa di Francese, Mariella Ceravolo, figlia del mitico Presidente del Catanzaro Calcio e che ho ritrovato con grande gioia di recente, e la Professoressa Benincasa, che insegnava storia e geografia. Ricordo che quest’ultima  era  talmente soddisfatta del mio profitto da fare in modo che al liceo Galluppi capitassi nella sezione in cui insegnava suo marito, che era il mitico Professore di latino e greco di quel tempo, Federico Procopio, la cui severità era pari alla sua immensa preparazione. Ricordo come fosse ieri che con lui l’esordio non fu dei migliori. Parlo della prima versione di greco in un compito in classe. Non fece sconti né sul voto che mi diede, né nel sarcasmo con cui commentò gli errori. La mia mortificazione fu doppia, perché sentivo di aver tradito anche la fiducia di sua moglie.

-Come andò a finire?

Fu difficile risalire la china e guadagnarmi la sua stima, ma ci riuscii facendo leva sulla mia capacità di reagire con forza di fronte alle avversità che in tante altre occasioni mi erano capitate. Di quegli anni non posso non ricordare anche la professoressa di filosofia e storia Elena Pugliese, che ancora oggi in occasione delle festività natalizie mi fa dono di libri sempre molto interessanti.

-Come nasce la sua scelta universitaria?

Conseguita la maturità classica decisi di iscrivermi alla Facoltà di Giurisprudenza, e approfittai del fatto che a Catanzaro era stata appena istituita una succursale dell’Università di Messina nota per la serietà degli studi giuridici. Gli acciacchi di cui prematuramente soffrivano i miei genitori non mi consentivano, fra l’altro, di iscrivermi in un’altra sede. Il mio desiderio vero era quello di diventare avvocato, e di svolgere la professione di avvocato nella città dove ero cresciuto.

-Cos’è che l’aveva convinta a fare da grande l’avvocato?

Ero rimasto molto affascinato dalle fasi del processo della strage di Piazza Fontana, celebratosi proprio a Catanzaro. ma poi le cose non andarono evidentemente in quella direzione.

-Cosa contribuì a cambiare il corso dei suoi progetti?

Al secondo anno di università conobbi la mia attuale moglie. Lei si era iscritta al primo anno, e mi intervistò al termine dell’esame di diritto privato, che era particolarmente ostico all’Università di Messina, per prendere nota degli argomenti richiesti. Era esattamente il 30 giugno del 1982, il giorno prima la Nazionale di calcio italiana aveva superato l’Argentina di Maradona ai Mondiali di Spagna ed io l’esame di diritto privato. Non immaginavo quel giorno che incontrando lei stessi anche ipotecando il mio futuro.

-In che senso?

Quella ragazza, che dopo pochi mesi era già diventata la mia prima fidanzata, ad un certo punto cessò di essere un’assidua frequentatrice della facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro, perché nel settembre del 1993 era nel frattempo diventata insegnante di ruolo di scuole elementari. Le ho detto che lei era di Cosenza, e oltre la maturità classica conseguita al Bernardino Telesio, aveva conseguito anche il Diploma magistrale, e dopo aver partecipato ad un concorso indetto in quel periodo, superatolo, iniziò la nuova esperienza in località particolarmente disagiata alle pendici del Pollino. Fu per questo che una volta laureato decisi di non perseguire più il sogno della professione forense, e iniziai a perfezionare gli studi per sostenere alcuni concorsi indetti da alcune amministrazioni pubbliche.

-Fu difficile trovare lavoro?

Nel novembre del 1997 partii da Catanzaro per assolvere agli obblighi della leva, mi avevano destinato a Sacile un paesino in Friuli Venezia Giulia, e partii con molto rammarico dentro perché nel frattempo mi erano giunte alcune proposte da importanti società di assicurazioni, che non si concretizzarono proprio a causa del servizio militare obbligatorio.

-Come arrivò in polizia?

Fu proprio la mia fidanzata a propormi la partecipazione ad un concorso indetto per il reclutamento di 200 Vice Commissari, lei aveva letto il bando di concorso su una di quelle pubblicazioni di settore che facevano bella mostra nelle edicole.

-Come prese quella proposta?

Francamente allora la cosa non mi sembrava così particolarmente allettante. Mi vennero in mente i tanti funzionari di polizia uccisi dalla mafia o dal terrorismo, e le stesse vicende del Commissario Cattani nella famosa serie televisiva “La Piovra” mi avevano particolarmente colpito e non in positivo. Partecipai comunque a quel concorso molto selettivo con senza troppa convinzione, e quando una sera durante una consueta telefonata ai miei genitori da Sacile, appresi che avevo superato le prove scritte ricordo che non provai nessuna particolare emozione. Tra l’altro appresi che avrei dovuto sostenere le prove orali dopo solo tre settimane, e nonostante una richiesta accorata ai miei superiori per ottenere una momentanea dispensa dal servizio militare, per potermi preparare adeguatamente all’esame, ne ricevetti una risposta negativa.

-Come risolse?

Mi organizzai trovando un asilo nido, dove mi fu consentito di accedere durante la libera uscita dai gestori dello stesso, e la sera dopo il contrappello sgattaiolavo in un magazzino vicino alle camerate e continuavo a studiare.

-Come andò?

Superai anche l’orale e ritornato in Caserma, dopo che a Pordenone in Questura mi fu notificata la nomina a Vice Commissario, il Comandante mi affido come atto di stima la gestione dell’ordine pubblico delle camerate.

-Amara soddisfazione non crede per un ufficiale di polizia appena nominato?

La presi bene anche allora. Ma senta questa, dopo pochi giorni mi assunsi in caserma una grande responsabilità. Ricordo che era in programma ad Udine una partita di Coppa Italia tra Udinese e Catanzaro e la nutrita pattuglia di calabresi che erano in caserma con me, era in subbuglio perché la partita così come era stata programmata non consentiva di rientrare in tempo utile dallo stadio e rispettare quindi l’orario previsto per la ritirata.

-E allora?

Si rivolsero tutti a me per intercedere con il Comandante e ottenere uno speciale permesso. Io raccolsi i nomi e predisposi una richiesta per ogni nominativo e mi recai dal Comandante rappresentando quella che era situazione reale.

-Quale fu la risposta?

Il comandante si disse subito disponibile a concedere il permesso di rientro posticipato, ma quando misi sul suo tavolo le richieste che ognuno di noi aveva sottoscritto, cinquanta in tutto, trasecolò letteralmente . Mi disse che eravamo troppi. Io feci leva sulla nostra condizione di difficoltà rispetto agli altri commilitoni del nord che potevano invece raggiungere le proprie famiglie durante i fine settimana, ma non bastò a convincerlo. Per vincere allora la sua resistenza gli dissi a muso duro che io non avrei più potuto garantirgli la tranquillità delle camerate, perché quei ragazzi avevano affidato nelle mie mani la loro fiducia e io non potevo tradirli. Alla fi convinse e andammo tutti a Udine da dove tornammo inevitabilmente sconfitti, ma contenti di aver vissuto due ore di entusiasmo puro. In quella circostanza capì meglio come i successi della squadra giallorossa potevano diventare motivo di rivalsa sociale per i tantissimi calabresi emigrati al nord, carichi di una nostalgia infinita e vittime almeno allora di tanta discriminazione.

-Si ricorda il suo primo giorno in Polizia?

Come potrei non ricordarlo? Ricordo che partii una sera dal Friuli che ero un soldato semplice e mi ritrovai l’indomani mattina ad indossare la divisa da Vice Commissario per la frequenza del corso di 9 mesi. Eravamo in duecento quel giorno, e la gran parte di noi fortemente motivati e desiderosi di iniziare un’avventura che ci avrebbe se non altro assicurato un lavoro importante.

-E il suo sogno originario di fare l’avvocato muore per sempre?

A poco a poco iniziai ad appassionarmi al mio nuovo mondo. Soprattutto seguendo con grande passione le lezioni di investigatori del calibro di Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli, Nicola Cavaliere, Franco Gratteri e tanti altri investigatori di razza. Loro, sebbene ancora giovani, avevano una marcia in più e un carisma che li avrebbe poi portati ai vertici del Viminale.

-Il suo primo incarico ufficiale?

Il corso passò in fretta e la destinazione finale, era il luglio del 1989, fu la Questura di Cosenza.

-Immagino felice di tornare in Calabria?

Era quello che io desideravo. Con me fu assegnato anche un altro collega dello stesso corso. Il Questore del tempo era Antoni Pagnozzi, un funzionario di provata esperienza e professionalità, già apprezzato Capo della Squadra Mobile di Milano e Direttore del Centro interprovinciale Criminalpol della Lombardia. Prima mi fecero fare un po’ di pratica nei diversi uffici della questura e dopo una settimana fui inserito nei turni di reperibilità dei Funzionari.

-Il suo primo intervento?

Al mio primo turno di reperibilità ricordo che fui chiamato alle nove di sera dalla Sala Operativa che segnalava un malato psichico che si era lasciato andare a violenze nei confronti della madre, distruggendo gli arredi dell’abitazione di residenza. Mi recai sul posto insieme all’equipaggio di una volante. L’abitazione era nel centro storico di Cosenza ed all’esterno trovai la madre dell’infermo palesemente agitata. Entrammo dentro la casa e trovammo suppellettili distrutte ed in particolare tantissimi barattoli di vetro, di quelli che contenevano sott’oli a base di verdure o salumi, letteralmente in frantumi per terra. Quell’immagine le confesso mi provocò tanta rabbia, per quel ben di Dio che si era perso. Pensai alla fatica ed alla cura con cui quella povera mamma li aveva preparati. Poi, in una cameretta lì accanto, seduto su un letto trovammo Antonio, questo era il suo nome, ancora ansimante dopo lo sfogo violento che aveva vissuto.

-Come ne uscì?

Non fu per niente facile. Il giovane era ben conosciuto dagli agenti che ne avevano in passato subito la forza bruta mentre lo stavano accompagnando in ospedale. Quel giorno era un mercoledì e tutti i tentativi per contattare qualcuno al Comune di Cosenza per disporre un TSO risultarono vani. Ricordo anche che era una serata di partite di Coppa europee di calcio e allora i cellulari non erano ancora in uso. Il centro d’igiene mentale CIM era chiuso e dall’Ospedale Civile non erano disposti a mandare una ambulanza per un caso come questo. Verso mezzanotte allora, con la madre del malato che non intendeva rimettere piede in casa, ed Antonio che ancora in stato di agitazione decisi di far chiamare il medico di famiglia. Mandai la volante a prenderlo a casa, ed una volta giunto sul posto mi trovai al cospetto di un signore anziano che a quanto pare avevamo sottratto all’abbraccio di Morfeo, insomma ancora visibilmente addormentato. Il medico conosceva bene Antonio e tra i due si instaurò subito un colloquio ma capii subito che Antonio non intendeva assolutamente farsi portare in ospedale.

-In questi casi cosa si fa?

Le dico quelli che feci io. Suggerii al medico di fare assumere ad Antonio qualche goccia di Valium. E quando gli fu proposto di prendere delle gocce di tranquillante Antonio rispose che l’avrebbe fatto solo se le avesse fatto anche il dottore. Forse non si fidava. Ricordo che il medico mi guardò perplesso in viso, e capì dal mio sguardo che non si sarebbe potuto sottrarre. La questione si doveva risolvere, si era fatto molto tardi e quello era l’unico modo per andare tutti a dormire il più presto possibile.

-Morale della favola?

Ad Antonio furono somministrate venti gocce di Valium e dieci al medico. Mentre il primo crollò quasi subito il secondo rientrò a casa accompagnato dagli agenti che lo videro entrare in casa sua barcollando sulle gambe. Era stato il mio primo intervento da Funzionario di Polizia, e quella notte mi resi conto che avevo messo in pratica le due doti a cui uno dei miei maestri, il Dott. Gianni De Gennaro, ci disse che avremmo dovuto sempre fare ricorso nel nostro lavoro.

-E cioè?

Buon senso e fantasia.

-Che anni furono quelli per lei a Cosenza?

In quel periodo, si registrava un rigurgito del conflitto fra clan rivali che aveva insanguinato le strade di Cosenza sul finire degli anni settanta e l’inizio degli ottanta. All’interno di uno dei due clan operanti in città si era aperto uno scontro causato dall’ambizione di alcuni giovani emergenti di avere libertà di manovra nella gestione di alcune attività illecite. Ci furono ricordo agguati in perfetto stile mafioso, e poi la scomparsa di due fratelli che, si seppe in seguito, attirati con un tranello in un deposito nei pressi dell’ospedale civile furono massacrati senza pietà. Il contatto con la realtà criminale della città fu diretto e immediato, e ricordo che fui costretto a studiare tanti fascicoli diversi per comprendere la realtà delinquenziale di quel territorio e di quella stagione.

-Per il resto tutto filò liscio?

A settembre di quell’anno successe qualcosa che segnò il mio destino per sempre. Una mattina, la mia fidanzata, che nel frattempo era stata assegnata ad una scuola elementare in una frazione di Corigliano scalo, si accorge che la propria auto era stata rubata. Si trattava di una Duna che si pensava non riscuotesse apprezzamento nemmeno fra i ladri. Ed invece, il ladro, però pensò bene di telefonare a casa dei miei suoceri per avanzare una richiesta estorsiva di 5 milioni di lire.

-Lei cosa decise di fare?

Alla seconda telefonata che avvenne la sera di quello stesso giorno risposi io, e ci accordammo per una cifra di 2 milioni di vecchie lire, dandoci appuntamento l’indomani mattina a Piazza valdesi. Io giunsi sul posto con la Panda di mio suocero. Nel portabagagli molto scomodo si era nascosto un poliziotto della squadra mobile. Altri poliziotti sorvegliavano invece la zona a bordo di altre auto. Il ladro mi avvicinò e chiese di salire a bordo per accompagnarmi nel posto dove aveva nascosto la Duna. Incrociammo una pattuglia della Squadra mobile mentre ci inoltravamo nelle viuzze del centro di Cosenza e lui, non sospettando minimamente chi io fossi, si preoccupò di dirmi che nel caso ci avessero fermato arei dovuto dire che gli avevo dato un passaggio. Ricordo che ad un certo punto giungemmo nei pressi di una chiesa che non avevo mai visto prima. Lui mi fece scendere per spostarci a piedi da un’altra parte, e io con la scusa di ritornare in macchina per prendere la busta con i soldi che avevo dimenticato a bordo, avvisai l’agente nascosto nel cofano dandogli però un’indicazione sbagliata sul luogo in cui io credevo di trovarmi, e che lui segnalò alle altre pattuglie.

-Non mi dirà che l’ha fatta franca?

Quando, dopo aver salito alcune scale, giungemmo su uno spiazzo dove era parcheggiata la Duna, afferrai il ladro e lo bloccai urlando che ero un poliziotto. Si affacciarono parecchie persone e confesso di avere avuto anche un momento di paura. MI accorsi che la Panda di mio suocero era visibile giù in basso allo spiazzo, ed urlai al poliziotto perché venisse in mio aiuto. Il collega uscì dal cofano dell’auto, con la pistola in pugno, e la cosa ricordo spaventò molto alcuni fedeli che in quel momento stavano entrando in chiesa per assistere ad una funzione religiosa.

-Ma poi capì dove era finito?

Eravamo nel quartiere Santa Lucia e la chiesa era quella di San Franceso d’Assisi.

-Non mi ha raccontato la fine…

Lui lo arrestammo e in ufficio in questura si precipitarono sei dei dieci fratelli dell’arrestato. Appartenevano ad una famiglia che versava in condizioni di grave indigenza. Temevano che il loro congiunto potesse subire reazioni forti che io non avevo assolutamente considerato. La loro presenza in me suscitò solo sentimenti di commiserazione. Il giovane ladro, che non sospettava minimamente che il suo arresto potesse rappresentare per me un momento significativo della mia carriera da poco iniziata, prima di andare in carcere allungò la mano destra per salutarmi, e con la sinistra stava consegnandomi una banconota da due mila lire che a suo dire aveva trovato in auto. Gliela restituì, e gliene allungai una da dieci mila per le sigarette.

-Si era pentito di averlo arrestato?

Diciamo che provai solo molto dispiacere. E mi creda, quel sentimento l’ho rivissuto tante altre volte in occasione di altri arrestati, specie in quelle situazioni in cui ritenevo gli arrestati vittime a loro volta di un destino sfortunato. A volte la miseria più nera porta a delinquere.

-Il suo primo successo professionale dunque?

Il Questore il giorno seguente ritornò in sede dopo un impegno familiare e si complimentò con me dicendomi che mi ero fatto onore. Dopo una settimana decise di assegnarmi alla squadra mobile, che era l’Ufficio investigativo per eccellenza delle Questure.

-Alle dipendenze di chi?

Il Capo era allora Michele Giuttari, un funzionario di grande valore che si era distinto in particolare nella direzione della sezione anti-sequestri della Squadra mobile di Reggio Calabria. Aveva un grande carisma ed un piglio da duro che il sigaro toscano che teneva perennemente in bocca accentuava. Dopo pochi giorni scoprii che aveva un’altra grande dote, e che non potevo sospettare. Una mattina la sala operativa diffuse con concitazione la nota di rapina in atto presso l’agenzia della cassa di Risparmio di Quattromiglia di rende. Alcuni agenti a bordo di auto civetta si precipitarono verso l’obiettivo partendo dalla Questura. Io e Giuttari ci movemmo con un leggero ritardo perché l’autista tardò a presentarsi. La guida a sirena spiegate non sembrò adeguata al Dr. Giuttari che intimò all’autista di accostare e di scendere dall’auto. Giuttari prese il volante e mi trovai catapultato in una di quelle corse che avevo visto solo in televisione. Arrivammo per primi davanti l’istituto di credito ed i rapinatori che erano ancora dentro furono arrestati. Quando chiesi a Giuttari dove avesse imparato a guidare in quel modo, mi disse che era stato pilota di Rally.

-Cosenza città di mafia allora?

Non solo. In breve, l’adrenalina ricordo iniziò a circolare abbondantemente nelle mie vene e l’impegno a contrastare criminali di ogni specie cominciò ad essere assorbente. Ogni successo, al termine di complesse indagini o a seguito di interventi in flagranza di reato, non faceva che accrescere la mia passione verso un tipo di lavoro che non pensavo mai dovesse diventasse la mia vita.

-E il rapporto con Giuttari filò sempre liscio?

Purtroppo, a causa della recrudescenza del fenomeno dei sequestri di persona per mano della ‘ndrangheta, il Capo della Polizia dispose l’aggregazione a Siderno del Dr. Giuttari, forte lui della sua innegabile esperienza sul campo E io rimasi così da solo a dirigere un ufficio così impegnativo, pergiunta con pochi mesi di servizio alle spalle.

-Le pesò molto quella condizione di vita?

Le confesso che ogni rapina portata a termine in quel periodo era come se l’avessi subita io. Furono mesi impegnativi anche perché io allora ero alle prese con i preparativi del matrimonio e mi toccava inseguire oltre che ladri e rapinatori anche gli operai della ditta che avevo incaricato della ristrutturazione di casa, e che come accade dovunque spesso non si presentavano a lavoro perché si spostavano, invece, in altri cantieri diversi e che avevano avviato contemporaneamente alla mia casa.

-Ma un giorno lascia anche Cosenza?

Da vice Dirigente della Squadra mobile di Cosenza ebbi modo di mettermi in luce agli occhi dei vertici degli uffici investigativi centrali e per volontà del Capo del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato Gianni De Gennaro, fui aggregato nel novembre del 1990 alla Questura di Perugia per far parte della Squadra Antisequestri, appena istituita per affrontare le indagini avviate in seguito al sequestro del piccolo Augusto De Megni. Sequestro che si risolse brillantemente con la liberazione del sequestrato e l’arresto dei responsabili. Dopo due anni di servizio alla Squadra Mobile di Cosenza sono stato invece assegnato al neo istituito Centro operativo DIA di Reggio Calabria, nonostante la giovane età e l’esperienza ancora limitata. Lì sono rimasto appena un anno, ma trascorso in maniera intensiva. Una full immersion che mi ha fatto affrontare l’inizio di una stagione altamente produttiva per quella che è stata la reazione dello stato dopo gli attacchi ricevuti con le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

-Un lavoro complesso?

La Direzione distrettuale Antimafia ha iniziato a macinare indagini su indagini con l’apporto dei primi  pentiti di grosso calibro come Barreca e Lauro affidati proprio al Centro Operativo Dia. Dai loro verbali e dai racconti che io ascoltavo durante le lunghe passeggiate tra le mura del fortino sul mare di Via Calamizi ancora in fase di ultimazione, ho imparato a conoscere i tanti segreti della ndrangheta reggina.

-Di cosa parliamo dottore?

Delle raffinate strategie criminali di uomini che senza titoli di studio governavano e dirigevano i vari summit di mafia in Aspromonte. Strategie di una violenza inaudita, legate a mille attività illecite diverse e già allora enormemente remunerative. Parliamo della suddivisione delle aree di influenza tra i vari clan, e la sottomissione delle Istituzione democratiche agli stessi boss del tempo, con una infiltrazione sistematica dovunque ci fosse qualcosa da gestire, parliamo soprattutto di scontri di mafia tra clan rivali frontali e devastanti.

-La vecchia mafia dottore?

Non solo la vecchia mafia, ma ricordo che in quegli anni avveniva di fatto il passaggio di consegne tra i vecchi boss di allora e i loro figli. In quei summit che si tenevano in montagna si decideva anche il futuro dei loro figli nel frattempo avviati a studi universitari che sarebbero stati poi funzionali agli interessi dei clan. Soprattutto giovani avvocati, ma anche giovani medici e professionisti di ogni tipo.

-Ha mai incontrato nel corso delle sue inchieste la vita e la storia di Polsi?

Nessuno poteva mai immaginarlo, ma anche il Santuario della Madonna di Polsi doveva nei piani dei boss essere guidato da religiosi a loro vicini.

-Non crede di esagerare?

Vede, il successo della ndrangheta attuale nasce da quegli uomini abituati a mangiare pane e formaggio e pasta col sugo di capra, ma dotati di un acume che nessuno potrà mai immaginare se non dopo averli conosciuti di persona. Strateghi non contadini o guardiani di capre, uomini di una intelligenza e una perfidia innata, abituati ad esprimersi più con il silenzio di sguardi eloquenti o con suoni simili ai grugniti che con le parole. Per loro le parole ho imparato nel tempo sono  ritenute sempre poco necessarie, se non per esprimere sentenze da cui dipendevano le vite di tante altre persone come loro.

-Cosa si porta dentro di quei colloqui e di queli incontri?

Ricordo quello che mi dicevano quando mi parlavano dei rapporti che avevano avuto con i protagonisti dell’eversione nera, e  che allora avevano in Franco Freda un esponente di spicco, che a Reggio aveva trovato appoggi sicuri con l’avallo della ndrangheta che a Reggio contava già su professionisti capaci di trattare con quella parte della politica sensibile al supporto dei clan.

-Mi dia ancora un dettaglio per favore…

Altamente istruttivo fu per me ascoltare dal boss Barreca quali furono i passaggi che con l’avallo di alcuni protagonisti della politica locale portarono all’omicidio di Ludovico Ligato.

-Perché lo hanno ucciso?

Perché lo consideravano colpevole di ostacolare in qualche modo la realizzazione di cospicui investimenti statali in quell’area cui erano anche interessate le consorterie criminali che lo hanno ucciso così platealmente proprio nel territorio di pertinenza del neo collaboratore di giustizia. È stato in quei giorni che ho capito che la realtà del crimine organizzato superava la più fervida immaginazione, e che le trame di film o di varie serie televisive diverse sulla materia erano non propriamente fedeli al vero, ma questo lo dico per difetto. Nel senso che la ndrangheta è molto più aggressiva e violenta e pervasiva di quanto non si racconti al cinema. Un mondo di una violenza inaudita e inimmaginabile. Guai a mettersi contro.

-Ma lei raccolse altre confidenze eccellenti?

A me fui affidata poi la ricostruzione della faida tra le famiglie Commiso e Costa che insanguinò su finire degli anni ’80 le strade di Siderno.

-La solita narrazione della ndrangheta?

Fu per la verità un lavoro lungo e certosino, che alla fine portò all’arresto della gran parte dei responsabili all’alba di un freddo mattino del 1993. Io dovevo procedere alla cattura del killer più feroce dei Commisso e quando mi trovai di fronte alla villa dove abitava fummo accolti da due possenti doberman. Ricordo che mi sono girato verso i miei collaboratori per avvisarli della minaccia in corso, dicendo loro di prendere le armi in dotazione per un’eventuale difesa, ma mi accorsi della presenza di una troupe televisiva che stava girando le riprese dell’operazione.

-Un segreto di Pulcinella?

Pensi che erano giornalisti canadesi e nel loro Paese il killer che io stavo per arrestare si era recato in più circostanze in Canada per portare a compimento vere e proprie missioni di morte.

-Che fece? Uccise i cani da guardia?

Ma scherza? Qualunque azione violenta nei confronti dei doberman non sarebbe stata opportuna. Non mi restò che provare a distrarli con un fischio e qualche boccone alimentare per distrarli e consentire ai miei collaboratori di fare irruzione.

-Come andò a finire?

Mi andò bene anche quella volta, perché ad aiutarmi fu il motto di Gianni De Gennaro, buon senso e fantasia. L’esperienza reggina si concluse nel giugno del 1993 quando fui richiamato a Cosenza a dirigere la Squadra Mobile. Nonostante fossero trascorsi solo 11 mesi non ero più il giovane funzionario di belle speranze, ma di scarsa esperienza. Avevo acquisito un bagaglio sufficiente per affrontare una nuova avventura che sarebbe stata carica di tante prove, anche cariche di tante insidie e veri e propri pericoli, ma anche di tanti successi che sono stati poi il viatico di un futuro professionale gratificante.

-Spero che lei oggi a Natale possa oggi godersi questa giornata di festa…

Lo spero anch’io. Il Senato è chiuso, il Presidente è tornato a casa sua, e a differenza dei tanti Natali trascorsi in piazza con il Papa, perché Natale in Vaticano è un giorno speciale ma come tanti altri giorni dell’anno, io quest’anno sono più tranquillo di sempre, a casa con la mia famiglia.

Buon Natale allora…

Grazie a voi, Buona Natale anche a voi e ai vostri lettori.

Un Uomo dello Stato

pino nano racconta luigi carnevale
luigi carnevale nel suo ufficio in Vaticano

Originario di Squillace (Catanzaro), sposato e padre di due figli, Luigi Carnevale inizia la sua carriera in Polizia nel 1989 presso la Squadra Mobile della Questura di Cosenza, con l’incarico di Vice Dirigente. Durante quel periodo, durato circa tre anni, Luigi Carnevale riorganizza le sezioni investigative dell’Ufficio, con particolare cura per la sezione antirapina e antidroga, data la particolare incidenza dei crimini connessi a quei settori. Aggregato alla Squadra Antisequestro, costituita presso la Questura di Perugia, contribuisce all’inchiesta sul sequestro del piccolo Augusto De Megni, vicenda conclusasi felicemente nel gennaio 1991 con la sua liberazione. Nel 1992 è assegnato al Centro Operativo DIA di Reggio Calabria, con l’incarico di Dirigente di Sezione. In quell’Ufficio svolge attività investigative antimafia di grande delicatezza istituzionale, fra queste quelle conclusesi poi con l’arresto degli autori e dei mandanti dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti e dell’ex Presidente delle Ferrovie dello Stato Lodovico Ligato. L’anno successivo ritorna a Cosenza, sempre alla Squadra Mobile ma questa volta come Dirigente, distinguendosi per le attività svolte, in relazione alle quali riceve formali attestazioni di compiacimento dall’allora Ministro dell’Interno. In particolare: conduce, con straordinari risultati, attività di indagini nei confronti delle consorterie criminali legate alla ‘ndrangheta, operanti sull’intero territorio della provincia, e culminate nel maxi-blitz del 10.10.1994 con l’arresto di 118 affiliati alle cosche mafiose, responsabili a vario titolo di omicidi, estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti, e la cattura di numerosi pericolosi latitanti anche all’estero. Per queste sue inchieste, Luigi Carnevale riceve diverse minacce di morte da parte di un’organizzazione criminale, il tutto per fortuna si conclude con l’arresto del capoclan della stessa organizzazione criminale, e la scoperta dell’esplosivo e dei telecomandi che sarebbero serviti per l’attentato contro di lui. Il 03.10.1994 gli viene conferita la promozione alla qualifica di Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato per meriti straordinari. Nel 1997 è trasferito alla Questura di Brindisi con l’incarico di Dirigente della Squadra Mobile, ottenendo anche lì numerosi riconoscimenti ufficiali. Nel 1999 è assegnato alla Squadra Mobile di Roma con l’incarico di Vice Dirigente e Dirigente la Sezione Criminalità Organizzata, l’ex Centro Interregionale Criminalpol Lazio e Umbria, e nel 2002 viene trasferito presso la Sede delle Commissioni Parlamentari Bicamerali, a Palazzo S. Macuto, dove è nominato dal Ministro dell’Interno funzionario di collegamento tra la Polizia di Stato e la Commissione Parlamentare Antimafia. Nel 2004, promosso alla qualifica di Primo Dirigente, alla fine del relativo corso di formazione è assegnato alla neo istituita Divisione di Analisi Criminale, presso il Servizio Centrale Operativo (lo S.C.O.) della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato e nel 2007 è assegnato al Servizio Controllo del Territorio con l’incarico di Dirigente della II Divisione. Nel 2009 gli viene conferito l’incarico di Vice Dirigente dell’Ispettorato di P.S. presso la Camera dei Deputati, dove assume la responsabilità dei servizi di protezione del Presidente della Camera dei Deputati fino al 2013, quando viene poi trasferito all’Ispettorato di P.S. “Vaticano” in qualità di Vice Dirigente. Dal 1° ottobre 2015 al 17 giugno 2016 frequenta il Corso di alta formazione presso la Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia al termine del quale, ottenuta nel frattempo la promozione a Dirigente Superiore della Polizia di Stato con decorrenza 01.01.2016, gli viene conferito l’incarico di Direttore del Servizio Polizia Scientifica presso la Direzione Centrale Anticrimine. Dal 23 luglio 2018 è il Dirigente dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza “Vaticano” e in data 20.05.2019 viene promosso Dirigente Generale della Polizia di Stato. Un percorso professionale che fa di lui oggi uno dei poliziotti italiani più amati e più stimati del Ministero dell’Interno.(Pino Nano)

pino nano racconta luigi carnevale
Calabria Live dedica la sua copertina a Luigi Carnevale

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