
“Da San Giovanni in Fiore in Olanda per rincorrere l’amore della vita”
di Pino Nano
“Crescere di incanto e meraviglie è un privilegio concesso a pochi. Io e i miei fratelli siamo tra quelli. Chiudere gli occhi e ricordarmi bambina per me significa odore di bruciato di una fiamma che soffia su un metallo scuro, in trepida attesa che l’alchimista – mio padre – facesse la magia e quell’oggetto bruciacchiato venisse fuori da un contenitore di liquido fumante, manifestandosi nel suo colore più bello: l’oro. La storia della mia famiglia è strettamente legata alla storia dell’oreficeria in Calabria, quella terra da cui sono passati popoli di conquistatori – dai Greci agli Arabi, dai Bizantini ai Normanni – e su cui hanno lasciato cultura e tradizioni. Allora c’è poco da rimanere stupiti se, visitando il museo di Topkapi a Istanbul, si ritrovano le stesse trame dei nostri gioielli; quella perla scaramazza ricamata su un arazzo a Bisanzio come su una collana a San Giovanni in Fiore, nel cuore della Sila. È proprio qui che una famiglia di orafi continua una tradizione iniziata secoli prima”.

Raccontare la storia di Monica Spadafora mi ha comportato molta fatica. Non è facile rincorrere gente come lei. Devi proprio crederci per arrivare alla fine. Vi parlo di una donna manager a 360 gradi, poliglotta, educata ai fusi orari, abituata a viaggiare continuamente per il mondo, oggi giovane mamma cresciuta a pane e tradizione orafa in una minuscola bottega calabrese del suo paese di origine, San Giovani in Fiore. La sua canzone preferita è “Tu sí na cosa grande” di Domenico Modugno, e il libro di cui parla sempre molto volentieri è “La festa del ritorno”, di Carmine Abate. “Ça va sans dire”.
Esperta di diamanti come pochi altri in Italia, Monica Spadafora è una donna tostissima, che vive tra l’Italia e l’Olanda, e che nella patria dei diamanti ha aperto uno showroom di gioielli di famiglia che i grandi settimanali olandesi raccontano come un evento. Posso dirlo? Bella, affascinante, piena di classe, assolutamente padrona della sua vita e mondo che frequenta, che è un mondo fatto di Vip e di personaggi di primissimo piano del jet set internazionale. Da piccola sognava di fare l’architetto, poi la vita l’ha portata altrove. E oggi vive in Olanda. Un giorno per caso incontra a Rio de Janeiro Daniele, un ragazzo calabrese, ed è amore a prima vista. Che strana la vita. Decide di seguirlo nei Paesi Bassi, dove lui vive, più precisamente a L’Aia, ma solo perché Daniele fa un lavoro molto più “semplice” del suo. Non ci crederete, ma Daniele fa l’ingegnere aerospaziale, cosa che però non potrebbe mai fare in Calabria. E allora Monica decide di trasferire la sua vita sui canali olandesi. Una magia.
“E’ una macchina da guerra” mi dice di lei Franco Laratta, giornalista e politico che come lei è cresciuto a San Giovanni in Fiore, ma forse molto più giornalista che altro, e che cerco al telefono per saperne di più, e lui di rimando “Monica Spadafora? Parliamo di una vera eccellenza italiana in giro per il mondo”. Forse non a caso, ma questo Franco non me lo dice -lo scopro io navigando in rete- le ha appena dedicato il primo Speciale TV di una sua rubrica di grande successo e che lo stesso Franco cura per LaC, un format interamente dedicato al “made in Calabria nel mondo”.
Come arrivo io a Monica Spadafora?
A volte scopri un personaggio per caso, senza volerlo, così è accaduto anche questa volta. Una sera a casa, mi capita di guardare il TG2, il giornale che cura un giornalista di grande esperienza e di grande serietà professionale, Alfonso Samengo, calabrese emigrato anche lui da Cassano a Roma, e a un certo punto parte il servizio dedicato al Magna Grecia Festival che stava per concludersi a Catanzaro. E le immagini sono tutte puntate su Kevin Costner, che del festival di quest’anno è stata la vera star di prima grandezza, insieme a Tim Robbins. E chi c’è accanto a Kevin Costner? C’è una donna elegantissima che parla con lui con grande affabilità. Immagino sia la sua assistente al festival, e invece qualche ora ritrovo la foto di quella immagini sui siti internet e scopro che quella donna così bella accanto a Kevin Costner è in realtà la figlia di Giovambattista Spadafora, il grande vecchio orafo di San Giovani in Fiore, che è lì alla conferenza stampa del festival perché i trofei del Magna Grecia Film Festival sono della sua famiglia. E’ la dinastia degli Spadafora di San Giovanni in Fiore.
“A Kevin Costner- sorride la “dama bianca” della serata- dopo aver regalato i gemelli con i lupi della Sila, ho spiegato solo che non é vero che la Calabria sarebbe la location perfetta per un film d’amore, ma che potrebbe essere invece il set perfetto e ideale anche per un western. Gli ho parlato dei Canyon della Valle del Neto: Ma sarebbe il posto perfetto anche per un sequel di Robin Hood nei boschi della Sila. Penso che lo rivedrò a Venezia per la presentazione del secondo e terzo capitolo della saga Horizon. Il fatto che un grande attore come lui abbia presentato il primo capitolo della saga al Magna Grecia Film Festival di Catanzaro dovrebbe riempire d’orgoglio ogni calabrese”.
-Buona sera avvocato, posso scrivere che lei è figlia d’arte?
“Mio padre era Giovambattista Spadafora, quindi direi di sí. Ma non mi chiami avvocato per favore. Lo sono, è vero, ma oggi faccio molte altre cose, diverse e forse anche lontane dai testi giuridici della mia università. So anche che lei conosceva bene mio padre…”.
-Chi non lo conosceva? Era per tutti noi il grande maestro orafo di San Giovanni in Fiore. Credo di averlo intervistato tantissime volte. Mi parla di lui?
“Papà era cresciuto all’ombra di suo nonno Francesco nel vecchio laboratorio del rione “Funtanella”. Quando dico “cresciuto” intendo, letteralmente, “cresciuto” con suo nonno in laboratorio. Erano gli anni della guerra e suo padre era al fronte. Le sue figure maschili di riferimento erano i nonni, materno e paterno, ma tra i due lui prediligeva sempre il secondo, sentendo sin da subito il richiamo per una passione che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita. Da suo nonno sentiva i racconti della tradizione orafa della famiglia. Gli parlava di suo nonno e del suo bisnonno, i quali, come lui, facevano il mestiere dell’orafo, e così a ritroso nel tempo, riferendosi a una tradizione familiare plurisecolare, iniziata nel tardo ‘700 o forse prima”.
-Immagino sia fiera della sua storia. Oggi i gioielli della sua famiglia sono in giro per il mondo…
“Non dovrei dirlo, ma gli ori e gli argenti di Giovambattista Spadafora sono legati a incontri importanti. A Washington per esempio con Roberto Benigni, Sofia Loren, Robert Loggia, Ernest Borgnine, Franco Nero, ma l’emozione più grande è stata, senza dubbio, consegnare una scultura realizzata in argento a Mauro Fiore, altro figlio di Calabria e premio Oscar per la fotografia nel film Avatar”.
-Quanto è stato importante tutto questo Monica?
“Farsi conoscere a livello internazionale ha significato anche suscitare l’interesse di colossi del lusso come Harrods di Londra. Era la primavera del 2013 quando la nostra azienda si vide recapitare la proposta di partecipare al progetto del villaggio Harrods a Porto Cervo, in Sardegna. La prima volta che il colosso londinese oltrepassava i confini del Regno Unito lo faceva in Italia e dell’Italia voleva rappresentare il meglio. Fu un’edizione strepitosa ed il nostro nome si trovava in mezzo a nomi del prestigio internazionale quali Chopard, Garrard, De Grisogono, Valentino”.
-Monica, mi racconti per bene la sua storia. Lei dove è nata e dove è cresciuta?”
“Sono nata a Cosenza. Era il 1978 e non c’era ancora la possibilità di nascere in ospedale a San Giovanni in Fiore. Ho fatto le elementari a San Giovanni ma sono cresciuta a Lorica, dove ci trasferivamo con tutta la famiglia durante le vacanze scolastiche”.
-Che famiglia ha alle spalle?
“Una bella famiglia, impegnativa, ma bella. Il più impegnativo di tutti era papà che a sua volta portava il peso di un’eredità che ha sentito il dovere di portare avanti, ma ne aveva il talento e lo ha saputo usare. Lui é cresciuto all’ombra di suo nonno Francesco Spadafora, che era il maestro orafo di San Giovanni in Fiore. Questa eredità ha impattato, nel bene e nel male, su tutti noi. Tornando al presente, papà non c’è più da tre anni, ma per fortuna abbiamo mamma, che é sempre stata la mamma chioccia, sotto la cui ala protettiva a noi crescevano le nostre per volare. Il senso della famiglia che ci ha trasmesso non ha mai lasciato spazio a screzi tra di noi fratelli”.
-Quanti siete?
“Siamo in 4. Due fratelli e due sorelle e siamo molto uniti, nonostante ognuno di noi abbia una propria vita. Loro sono fantastici e ci sosteniamo sia nei rapporti personali che professionali. I nonni purtroppo li ricordo poco ma avevo un rapporto speciale con zio Ciccio, il fratello di papà. Zio lavorava in gioielleria ed eravamo molto complici, era il mio confidente. Un secondo papà, un uomo speciale”.
-Che infanzia è stata la sua in Calabria?
“Meravigliosa. Trascorrevo le estati a Lorica dove papà aprì un laboratorio orafo e annessa gioielleria negli anni 70. Io sono cresciuta libera di giocare in strada con gli altri bambini, ma anche di viaggiare lontano pur restando lì. Erano gli anni d’oro a Lorica, che, in quegli anni, era molto ben frequentata. Dalla nostra gioielleria abbiamo visto passare davvero il mondo. Erano gli anni degli incontri silani di Rita Pisano nella Perla della Sila. Attori, cantanti, tutti passavano da Lorica. Io ero una bambina molto curiosa e loquace. Entravo subito in empatia con questi adulti che mi portavano con sé affinché io potessi far loro da Cicerone. È stato bello”.
-Ha qualche ricordo personale di quella stagione?
“Ricordo che stavo sempre con papà. Se non ero accanto a lui mentre lavorava, avevo la mia mano bambina nella sua mano di adulto. Una mano grande e bella che realizzava tante cose e questo mi affascinava molto”.

-È vero che suo padre l’ha riempita di racconti?
“Erano tutte storie di cultura popolare. Uno dei suoi racconti preferiti era quello della forgia della rana d’argento negli stampi degli ossi di seppia. Pare, infatti, che ci si recasse dall’“orefice” anche per svezzare i neonati. La richiesta era quella di realizzare una rana in argento da legare al collo del bambino al momento dell’allattamento e pare che questo gli provocasse un rifiuto del seno materno. Ogni volta che lo racconta rimango un po’ perplessa, ma, restando indiscutibile la verità del fatto, la mia interpretazione è che il bambino usasse, invece, la rana d’argento – tra l’altro metallo antibatterico naturale – per succhiarla in luogo dei più moderni ciucciotti in lattice”.
-Immagino sia stata una infanzia molto agiata la sua rispetto a quella di suo padre?
“In quegli anni, mi creda, non si diventava ricchi facendo l’orafo. Erano anni di povertà ed emigrazione e, in una realtà rurale e marginale come quella di San Giovanni in Fiore, si pagava spesso barattando beni di prima necessità. Secondo la tradizione del tempo, anche un gioiello veniva considerato quasi un bene di prima necessità. Non ci si poteva sposare senza l’anello nuziale ed una suocera non poteva fare la brutta figura di non presentare la “Jennacca” alla nuora come dono di fidanzamento. Allora si faceva di tutto pur di andare dall’“orefice” a farsi forgiare il gioiello che avrebbe consentito di presentarsi alla società con la giusta dignità. Perfino per la morte ci si recava presso il laboratorio orafo a farsi realizzare gli orecchini o gli spilloni col bottone nero in segno di lutto, perché allora i gioielli rappresentavano degli status symbol. Molto più di oggi e non come oggi li intendiamo. Certo, indossare una bella “Jennacca” indubbiamente mostrava una certa facoltà economica, ma, prima ancora, indicava che la donna era impegnata e che, dunque, gli uomini che non fossero “il promesso” dovevano abbassare lo sguardo al suo cospetto”. Io, invece, sono cresciuta ascoltando queste storie, ma erano già gli anni ’80 e la vita era decisamente piú facile, anche se a casa mia mai nulla é stato dato per scontato. I miei fratelli piú di me, sono cresciuti studiano e lavorando con papá. Io lo facevo perché volevo farlo non perché dovevo.
-Vedo che lei ricorda tutti i dettagli della storia di suo padre…
“Tutti quelli che lui mi ha raccontato. Per esempio, mi raccontava spesso anche dei “marenghi” d’oro mandati dagli emigrati alle loro mogli, affinché potessero portarli dall’orafo a farli fondere e trafilare per forgiare le Jennacche, necessarie per il matrimonio del figlio maschio. Si capisce bene però che, con questi lavoretti, un unico laboratorio non avrebbe potuto sfamare ben quattro famiglie, così, dopo la morte del mio bisnonno Francesco, lo spettro dell’emigrazione si abbatté anche sulla famiglia Spadafora”.
-È partito anche suo padre Monica?
“No papá no. Partirono due dei suoi zii. Un terzo purtroppo morì molto giovane, ed il quarto, mio nonno Peppino, tornato dalla guerra, pur di non lasciare nuovamente il suo paese, affiancò a quello dell’orafo il mestiere del sarto, che, in quegli anni, rendeva di più. Gli zii partiti per l’Argentina negli anni ’50 in cerca di fortuna portarono con loro tutti gli attrezzi della famiglia, in particolare il banco a tre postazioni con cui mio padre era cresciuto e presso il quale aveva iniziato a esercitare l’arte orafa. Portarono via anche i gioielli realizzati dalla famiglia nei secoli e collezionati fino a quel momento dal bisnonno Francesco. Mio padre era poco piú che bambino a quel tempo, ma quel bambino una volta diventato ragazzo non aveva mai abbandonato il desiderio di seguire le orme del nonno e ben presto si reinventò”.
-In che modo?
“Acquistò, poco alla volta, i suoi propri attrezzi da lavoro, si iscrisse alla Camera di Commercio industria, Artigianato di Cosenza come laboratorio orafo e prese a lavorare in proprio. Praticamente aveva sostituito suo nonno, rimanendo l’orafo di riferimento di San Giovanni in Fiore, ma le sue ambizioni guardavano oltre: già pensava al momento in cui sarebbe potuto partire per l’Argentina e riscattare gli attrezzi di famiglia”.
-Si ricorda che anno era?
“Era il 1955. Lui aveva solo 17 anni, ma è iniziata così l’avventura dell’azienda orafa G.B. Spadafora. L’anno prossimo saranno 70 anni di attività legata al nome di papà”.
-Monica che scuole ha frequentato lei?
“Ho frequentato le elementari a casa Amato, le medie alla Gioacchino da Fiore e il Liceo Classico. Tutte a San Giovanni in Fiore”.
-Delle medie quali insegnanti ricorda ancora?
“La professoressa Sposato. Indubbiamente. Insegnava italiano, storia e geografia. Era severa, molto, ma il lavoro che mi ha fatto fare alle medie mi ha fatto campare di rendita per tutto il ginnasio. Ci faceva studiare il latino, che non era nel programma ai miei tempi, ma, soprattutto, ci ha fatto studiare la vita di Gioacchino da Fiore attraverso le memorie di Luca Campano. Una professoressa illuminata alla quale mi lega un profondo affetto”.
-E delle scuole superiori, quali insegnanti vale la pena di ricordare?
“La professoressa De Luca, di latino e greco al Ginnasio e la professoressa Spina, di biologia e chimica al Liceo. Andavo molto bene in tutte e quattro queste materie perché funzionano con la logica più che con la memoria. e loro trasmettevano molto bene la logica che stava alla base di ogni argomento”.
– Come nasce la sua scelta universitaria? E perché la LUISS?
“Guardi, la mia scelta universitaria non è stata una scelta convinta. Come dicevo prima, questa tradizione orafa che la mia famiglia si porta dietro ha impattato su di noi nel bene e nel male. Nonostante io sia stata sempre libera di scegliere, questa libertà ha giocato contro di me. Più cercavo di correre lontano da quella che sembrava una strada già decisa, più ne venivo attratta. Io mi ero iscritta ad architettura a Fontanella Borghese, a Roma, ma ho avuto un momento di cedimento e ho mollato. Me ne pento ancora, perché la mia passione per l’architettura mi accompagna sempre nella mia maniacale ricerca del dettaglio, negli arredi come nei gioielli, ma sa, a 19 anni uno dovrebbe avere l’esperienza dei 40 per non sbagliare le scelte. A quel punto ho optato per qualcosa che mi veniva facile, giurisprudenza ma alla Luiss, per l’orientamento aziendale dell’offerta formativa. Ho dato molti esami di economia e finanza nel mio piano di studi che poi mi avrebbero aiutata in futuro, sempre con quel pensiero che se un giorno avessi deciso di tornare, sarei stata utile all’azienda di famiglia”.

-Cosa è stata Roma per lei?
“La grande bellezza. Ce l’ha presente? Roma é stata tutto questo per me, una fotografia che lascia senza fiato ma anche una società di vacua borghesia. Non potrei amare un’altra città di piú ma col tempo ho imparato che non sarebbe stata la mia città. Ne ho vissuto gli scorci più belli e, grazie a Rino Barillari, ho potuto partecipare a quello strascico di dolce vita ormai in declino. Rino, il re dei paparazzi, calabrese anche lui, caro amico di famiglia che per me é un fratello maggiore, mi portava fino all’alba alla ricerca di personaggi da paparazzare, e con lui ne ho incontrati molti, tenendo sempre una certa distanza da quel mondo che rischia di confonderti. Ma io ero col maestro del disincanto. Lui in quel mondo riusciva a starci dentro mantenendo la lucidità di guardarlo dall’esterno. Continua a farlo anche oggi. Un grande, davvero. Ecco, per me Roma è Rino”.
-Il suo primo esame importante?
“L’esame di maturità. E non ero matura. La commissione si aspettava talmente tanto da me che mi fece domande fuori programma ed io andai nel pallone. Quello però mi fece affrontare tutti gli esami universitari con molta facilità. Avevo imparato la lezione”.
-Il suo esame più complicato?
“Non ne ricordo. Mi divertii perfino all’esame di Stato per avvocati a Catanzaro”.
-Hai mai pensato, dopo la laurea, torno a casa in Calabria?
“Subito dopo no. Sono scappata dalla Calabria alla volta di Bruxelles. In uno dei miei viaggi di rientro ricordo lucidamente che leggevo Panorama in treno sulla costa tirrenica. L’editoriale era stato dedicato all’omicidio Fortugno e pensai: cosa ci torno a fare in questa terra? Poi, invece, ho scelto proprio io di tornare. Ricorda quella croce e delizia di cui parlavo prima, circa il lavoro della mia famiglia? Alla fine, capii che era delizia”.
-La sua prima esperienza di lavoro importante?
“Il Parlamento Europeo. La mia curiosità lí è stata pienamente soddisfatta”.
-Che mondo era?
“Un mondo di politica, di buoni propositi, non tutti realizzati purtroppo, ma l’idea dell’Europa unita è una buona idea. Poi si scontra con i personalismi degli Stati Membri, ma le intenzioni sono buone. Alla lunga per me era diventato, peró, solo un mondo di buone intenzioni e tanti numeri e alla fine mi sono sentita anche io un numero tra tanti”.
-La ricerca, l’analisi, lo studio a cui è più legata?
“La mia tesi di laurea con Puccio Zadra. Lui era il direttore generale dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana) ed io mi laureavo in economia dei mercati monetari e finanziari. Mi chiese di scrivere una tesi sui sistemi di pagamento in Europa. Erano gli anni in cui nasceva la SEPA (single european payment area). Il numero di conto corrente bancario avrebbe lasciato il posto a Iban, Bic, Swift. Avevo scritto perfino un paragrafo sul pagamento tramite telefonino. Era il 2004”.
-E come finisce in Olanda?
“Galeotto fu il Brasile e chi mi ci portó. Era il 2013 e con le mie amiche Stefania e Giovanna avevamo pianificato un viaggio a Rio de Janeiro dove ci aspettavano Mario e Renata, un mio amico di infanzia e sua moglie. Si sono aggregati al nostro viaggio due amici delle mie amiche. Uno di loro era Daniele, ingegnere aerospaziale calabrese che viveva in Olanda dal 2008. Ci siamo incontrati lì per la prima volta e non ci siamo più lasciati. Per lui finisco in Olanda, e dire che ero scappata dal Belgio giurando a me stessa di non tornarci piú, e che non avrei piú lasciato la mia amata Calabria! Poi l’ho lasciata per un amore piú grande. Ci siamo sposati nel 2015 e da allora vivo a Leiden, una cittadina sui canali di 150 mila abitanti. Un bel posto. Se vi state chiedendo perché io abbia rinunciato alla mia vita e non lui alla sua, vi rispondo che un ingegnere aerospaziale non ha molte possibilità di reinventarsi in Calabria. Io alla fine lo avevo già fatto tante volte. Reinventarmi, intendo”.
-Leggo che anche suo padre un giorno decise di emigrare?
“Non proprio. Fu un’emigrazione breve e con uno scopo ben preciso. Fu il giorno in cui lui poté tener fede finalmente alla promessa che si era fatto molti anni prima e che era quella di dover partire per l’Argentina e riscattare dai suoi cugini, nessuno dei quali aveva scelto di intraprendere la strada dell’oreficeria, gli attrezzi ed i gioielli di famiglia. Così fu”.

-Impresa riuscita?
“Nei primi anni ’90 papà tornò a casa con parte della collezione dei gioielli borbonici, oggi parte di una collezione unica al mondo vincolata dal Mibact per il suo valore storico-culturale perché racconta 150 anni della vita del popolo del regno delle due sicilie, ma, soprattutto, con il banco di lavoro a tre postazioni presso il quale si era fatto tramandare il prezioso mestiere da suo nonno. Nel container dall’Argentina c’erano il banco, il mantice, la trafila, gli stampi e il trapano a mano. La missione era davvero compiuta. Una volta giunti a destinazione, però, papà si abbandonò immediatamente ad una riflessione: sarebbe stato tutto inutile se se li fosse tenuti per sé. Ormai il laboratorio dell’azienda era fornito di strumentazioni più moderne e quegli attrezzi, d’immenso valore affettivo, erano divenuti obsoleti. Decise allora, dimostrando una incommensurabile filantropia, di farne dono al Museo Demologico di San Giovanni in Fiore, affinché tutti potessero beneficiarne. A papà sembrò giusto che quegli oggetti tornassero lì da dove erano venuti: il centro storico di San Giovanni in Fiore, che conserva, dunque, queste importanti memorie della mia famiglia”.
Non solo San Giovani in Fiore, ma direi anche la storia di Gioacchino da Fiore è molto legata al lavoro della sua famiglia?
“Negli anni ’80 avvenne il fortunato incontro tra papà ed il liber figurarum Gioacchino da Fiore, in occasione della riapertura al pubblico dell’Abbazia Florense. In quel periodo gli fu commissionata la realizzazione di un’urna in ottone per riporvi dentro le ossa dell’Abate profeta. Fu così che, portando avanti una ricerca personale sul mistico personaggio, si imbatté nella figura del Draco Magnus et Rufus. Ne parlò con i miei fratelli, Peppe e Giancarlo e, insieme, pensarono di realizzare i primi orecchini in oro col grande drago dalle sette teste”.
-Andò bene?
“Fu il primo di una serie di gioielli e collezioni, oggi soprattutto in argento, in continua evoluzione. Posso dire, con un pizzico di orgoglio, che, con i nostri gioielli, abbiamo contribuito alla diffusione della conoscenza su Gioacchino da Fiore presso un pubblico più popolare rispetto alla élite di studiosi appassionati del suo pensiero. Pensi che la settimana scorsa abbiamo regalato un paio di Gioielli con i draghi a Tim Robbins, in occasione della sua partecipazione al Magna Graecia Film Festival. Quando noi confezioniamo una gioiello gioachimita lo accompagnamo sempre da una pergamena esplicativa della figura che rappresenta e tutti ne restano affascinati.
-Posso chiederle quante difficoltà ha incontrato appena arrivata invece nei Paesi Bassi?
“Inaspettatamente molte. Le dicevo che fino a quel momento avevo sempre saputo reinventarmi, ma erano sempre state scelte completamente dipendenti da me. Ora invece dovevo reinventarmi per amore di qualcun altro e non si dovrebbe mai investire nessuno di una tale responsabilità. Non è stato sempre facile. Ho comunque pensato di mettere immediatamente a frutto il tempo libero che avevo a disposizione, prima di decidere, di nuovo, cosa fare da grande. Allora ho preso il diploma di gemmologia all’IGI di Anversa (Istituto Gemmologico Internazionale) e ho continuato ad andare avanti e indietro dalla Calabria lavorando per l’azienda di famiglia anche in questa veste. Tuttavia, non mi sentivo completa come professionista, ero una persona a metà. Ho iniziato a studiare l’olandese e il mercato locale, così ho iniziato a fare consulenze nel campo immobiliare che era in pieno fermento in quegli anni. Nel frattempo, è arrivata mia figlia, subito dopo è arrivato il covid e anche il mercato immobiliare si è arrestato. Mi sono presa quel tempo per godermi la mia bimba, respirare e, di nuovo, capire cosa fare da grande”.
-Qual è stata la reazione dei suoi genitori quando hanno capito che a San Giovanni non ci sarebbe più tornata?
“Mamma e papà hanno finto benissimo. Erano felici per me perché mi sapevano felice con Daniele, ma la loro sofferenza era palpabile. Non so chi ne abbia sofferto di piú, perché mamma riesce ad essere una sfinge per il nostro bene, ma con papà, dal 2008, anno del mio ritorno in Calabria, al 2015, tutto era tornato come quando ero bambina a Lorica. Lo accompagnavo dappertutto e lui non si fermava mai. È stata davvero dura per lui, anche se all’inizio tornavo davvero spesso e cercavo di fargliela pesare di meno questa distanza”.
-Come fa a conciliare il suo ruolo attuale con i legami che ha ancora in Calabria?
“Con la gestione della mia gioielleria all’Aia non riesco a tornare spesso come prima, ma in realtà grazie ad essa il mio legame con la Calabria si è ulteriormente rafforzato. Lavoro insieme ai miei fratelli, anche se a distanza. Ci sentiamo più spesso per ragioni di lavoro. La tecnologia ha accorciato le distanze in questo senso”.
-Le è mai capitato in giro per il mondo di “vergognarsi” di essere figlia della Calabria?
“Non è mai capitato, ma le confesso che il mio orgoglio di essere calabrese è venuto solo col tempo. Da giovani non si apprezzano i forti legami che riusciamo a creare al Sud, li diamo per scontati. Poi viaggi, vivi altrove e capisci che posto piú bello al mondo non c’è. In giro ho sempre incontrato calabresi orgogliosi di esserlo, che si sono fatti valere in ogni settore e che hanno gli occhi lucidi quando parlano della loro terra”.
-Che consiglio darebbe ad un giovane manager che oggi volesse intraprendere la sua carriera?
“Lo studio, la tenacia, l’abnegazione ripagano sempre. Non ci sono formule magiche. Prendi un sogno e trasformalo in qualcosa di realizzabile. Credi in te ma circondati anche di persone che credono in te e che ogni giorno ti spingono a fare meglio. Tutta la preparazione del mondo non è sufficiente se alla fine non hai quel seme di follia che ti spinge a saltare nel vuoto. Io ho quel seme e ho Daniele, che, se serve mi dà l’ultima spinta”.
-Qual è stata la vera arma del suo successo?
“Davvero sono una persona di successo? Forse l’arma è proprio quella di non sentirsi mai una persona di successo e di ricercare invece il successo continuamente”.
-Che rapporto ha ancora con la sua città natale?
“Mi scorre nelle vene. Grazie ai social media sono uno membro molto attivo della comunità sangiovannese, anche troppo forse, e alcune volte mi è anche stato fatto notare. Quelle radici però mi aiutano ad ergermi albero e non potrei farne a meno”.
-Quante volte all’anno riesce a tornare?
“Almeno tre, ma sono sempre troppo poche”.
-Qual è la condizione degli italiani oggi in Olanda?
“Ci sono diversi tipi di italiani in Olanda. Ci sono gli italiani immigrati negli anni 50/60, per lo più operai in quegli anni, che sono diventati poi imprenditori affermati e membri attivi della comunità olandese nella quale si sono perfettamente integrati. Magari hanno sposato donne olandesi, ed i loro figli e nipoti sono olandesi a tutti gli effetti. Poi ad un certo punto é iniziata l’importazione di cervelli italiani, e non solo. Per via delle organizzazioni internazionali o intergovernative che hanno sede qui, c’era bisogno di alti livelli di educazione e l’offerta é intervenuta da altri paesi Europei. L’Italia è tra questi”.
-Quali sono le ragioni?
“Innanzitutto, queste organizzazioni sono finanziate dagli stati membri, e quindi il ritorno economico che questi stati ne hanno è anche in termini di forza lavoro di quella nazionalità. Ma c’è anche una ragione nel sistema educativo olandese che non consente a tutti di accedere ai livelli alti dell’istruzione”.
-Cosa significa?
“La disoccupazione qui in Olanda è al 3.7%? Sì, e ciò accade perché c’è una selezione di chi può fare che cosa già alle scuole medie. Se sia giusto o meno, non tocca a me dirlo. Il sistema funziona ma l’autodeterminazione delle persone dove sta? Tornando agli italiani in Olanda, negli ultimi anni si sta registrando di nuovo un’importazione di manovalanza ed è qui che si riscontrano i maggiori problemi per i nostri giovani connazionali”.
-Per esempio?
“Spesso arrivano senza la giusta consapevolezza, e si ritrovano in situazioni lavorative difficili. Mi chiedo sempre se queste tre Italie qui si incontrano tra loro? Purtroppo, no”.
-Le cifre parlando di una grande Little Italy;
“Gli iscritti Aire sono circa 71mila, ma questa cifra non tiene conto degli studenti, degli occasionali e di tutti coloro che, come dicevo poc’anzi, partono senza consapevolezza, e sono davvero tanti”.
-Sul sito ufficiale del Quirinale ho trovato una sua foto accanto al Presidente Mattarella?
“Una grande emozione, lo confesso. Un giorno indimenticabile. E’ stato quando lui è venuto in visita ufficiale ad Amsterdam e ha incontrato la comunità italiana”.
-Monica hai mai pensato di tornare prima o poi in Calabria?
“Certamente. Ha presente quel sogno da trasformare in qualcosa di realizzabile? Bene, ci sto lavorando”.
-Una Gemmologa italiana nel paese dei diamanti, una bella provocazione non crede?
“Lei dice?”
-Un’ultima domanda Monica, e poi la lascio in pace: cosa c’è dietro il successo di una saga familiare come la sua?
“Posso dirle tutta la verità. Vede, a mio padre vanno senz’altro riconosciuti il genio che era in lui e l’arte che riusciva a trasmettere e realizzare con le sue mani, ma se tutto ciò non fosse stato accompagnato dal sostegno di una famiglia forte, forse la storia sarebbe stata un’altra. Allora mi permetta di dire grazie a nostra madre, che ha sostenuto un marito talentuoso, ma spesso incomprensibile, totalmente e quasi esclusivamente dedito alla sua passione artistica, e che ha saputo mantenere i figli nei ranghi affinché seguissero le orme del padre. Dico, quindi, grazie a loro che hanno proseguito nella strada tracciata dagli avi, consapevoli, nonostante sacrifici e difficoltà, di conseguire grandi soddisfazioni da questo mestiere antico e da questo nome che ha una tradizione sigillata nei secoli”.

Tutto è partito da San Giovanni in Fiore
Monica Spadafora è nata a Cosenza il 17 Aprile 1978. Consegue la maturità classica presso il Liceo Classico di San Giovanni in Fiore con 60/60 e la laurea in Giurisprudenza presso l’università LUISS Guido Carli di Roma con il punteggio di 110/110. Nel 2005 parte per Bruxelles per seguire il Master in Studi Europei organizzato dalla Camera di Commercio Belgio italiana insieme all’ULB Université libre de Bruxelles) che conclude con successo. Nel 2006 Risulta vincitrice di una borsa Leonardo e rimane a Bruxelles come consulente per Teseo, una piccola società di progettazione nel campo della Ricerca e Sviluppo tecnologico. Appassionata di politica, riesce ad entrare al Parlamento Europeo come assistente parlamentare e si occupa di redazione di rapporti legislativi, progetti di parere ed emendamenti. Partecipa ai lavori della commissione per i Bilanci e della Commissione Energia e Ambiente del Parlamento Europeo e organizza eventi nello stesso circuito. Nel 2008, ricca di una esperienza di tre anni nella capitale d’Europa, capisce che potrebbe apportare un contributo di valore alla sua terra di origine, ma anche all’ azienda di famiglia, cosí decide di rientrare in Calabria. Lí completa la pratica legale e consegue il titolo di avvocato presso la Corte d’appello di Catanzaro, ma, contemporaneamente, segue gli affari legali e le pubbliche relazioni dell’azienda di famiglia, la G.B. Spadafora gioielli. Collabora con l’Università della Calabria dove lavora, a progetto, come docente prima del “Master Universitario di II Livello per Esperti in Europrogettazione” (ottobre 2008) e poi nell’ambito del programma “I 500 migliori giovani laureati della Calabria”(gennaio 2009) dando lezioni su: interpretazione e codificazione degli inviti alla presentazione di proposte; analisi delle linee guida e dei programmi di lavoro della Commissione Europea: le metodologie di lettura critica del bando; il contesto di proposizione; gli obiettivi principali; le azioni previste; i destinatari; gli aspetti finanziari. Simulazione di progetti a gestione diretta da presentare alla Commissione Europea, DG Ambiente, DG Ricerca e Sviluppo Tecnologico, DG Energia. Nel 2011 arriva la politica attiva e si candida a sindaco della sua città: San Giovanni in Fiore, risultando consigliere comunale eletto fino al 2014, cioè fino alla fine di quella legislatura. Contemporaneamente svolge attività di consulenza per la Regione Calabria, dipartimento Agricoltura e Forestazione, partecipando, tre le altre attività, alla redazione della legge forestale L.R. 12 ottobre 2012, n. 45. “Gestione, tutela e valorizzazione del patrimonio forestale regionale”. Nel 2013 si candida alle politiche tra le fila dell’Unione di Centro, ma, nello stesso anno, conosce Daniele, che poi sarebbe diventato suo marito, e , con il quale, nel 2015, si trasferisce nei Paesi Bassi, dove lui lavora per l’Agenzia Spaziale Europea. Nell’autunno dello stesso anno, Monica consegue il titolo di gemmologa presso l’IGI di Anversa e, per qualche anno, continua a seguire gli affari di famiglia andando avanti e indietro dall’Italia. Nel 2019 inizia la sua avventura imprenditoriale nei Paesi Bassi, dove si appassiona allo sviluppo immobiliare sostenibile, seguendo questa attività dal punto di vista legale, e crea la sua piccola attività di consulenza, la Spadafora Consulting. Purtroppo, l’imminente pandemia avrebbe rallentato, ove non bloccato, tutti i progetti in corso, cosí approfitta di quel tempo per migliorare l’olandese ed esplorare nuove possibilità di business e di networking. A settembre 2021 risponde al richiamo della partecipazione attiva alla vita della comunità, della quale, negli anni della pandemia, ha potuto conoscere esigenze e difficoltà espresse soprattutto attraverso i social media, candidandosi alle elezioni per il COMITES Olanda e risultando prima eletta della sua lista. Viene eletta Vicepresidente all’interno Comitato per il quale ha svolto un ruolo attivo dando la sua disponibilità a 360 gradi per i colleghi consiglieri e per la comunità tutta, approfondendo esigenze e bisogni della stessa anche attraverso le associazioni. Probabilmente, grazie a questo impegno, è stata premiata dall’Assemblea Paese, risultando prima eletta alle elezioni per il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero per i Paesi Bassi il 9 aprile 2022. Nell’ottobre 2023 Monica, dopo anni di riflessioni e analisi di mercato fa il grande passo: apre la prima filiale estera dell’azienda di famiglia: la G.B.Spadafora Gioielli. Da allora gestisce il suo negozio sulla centralissima Denneweg, a L’Aia, quella capitale amministrativa d’Olanda, sede delle principali organizzazioni e tribunali internazionali, nonché fervido salotto di eventi culturali ed artistici. Monica lí, non solo promuove il brand di famiglia, ma attraverso la storia che essi raccontano, fa conoscere ad un pubblico internazionale la cultura e la storia calabrese. Trasmette il messaggio positivo di Gioacchino da Fiore attraverso le figure del liber figurarum, che suo padre, per primo, rese tridimensionali nei suoi magnifici gioielli.
