Enzo De Maria e i suoi sogni

Il chirurgo calabrese Enzo De Maria autore di “Difficile che Sarai Medico”

Il sogno realizzato di un chirurgo vibonese

di Pino Nano

Questo libro è una favola moderna. È quanto di più dolce e di più tenero mi sia capitato di leggere in questi ultimi anni di scrittura e di giornalismo.

E’ la testimonianza disarmante e straordinariamente intima di un giovane studente del Liceo Classico Michele Morelli di Vibo Valentia che agli inizi degli anni ’70 sognava di diventare medico e che, una volta raggiunta con tenacia questa professione, tocca con mano il dolore degli altri e impara a rispettare i suoi pazienti, a trattarli come fossero carne della sua carne.

E’ la storia bellissima di un sogno che si è finalmente realizzato, e non solo il suo, è il racconto anche dei sogni dei suoi compagni di classe e di vita che come lui alla fine sono arrivati dove volevano arrivare.

E’ un inno alla vita, all’ importanza delle relazioni, alla sacralità della persona, alla custodia della natura.

E’ l’esaltazione letteraria della giovinezza e dei suoi grandi ideali.

E’ la testimonianza più autentica di cosa sia oggi l’emigrazione, e quindi il desiderio del rientro a casa dopo tanti anni di sacrifici e di studi all’ Università di Perugia.

Dagli anni ’70 in poi, è il diario bellissimo di uno studioso che non ha mai smesso di credere nella forza dei libri e della cultura, di un medico che non ha mai smesso di amare i propri pazienti, di un padre che non ha mai pensato a se stesso.

E tutto questo Enzo lo racconta qui con una forza magnetica senza pari, e con un cuore che batte più di quanto nessuno di noi potesse aspettarsi da un ragazzo timido e riservato come lui lo era ai tempi del liceo. Indimenticabile quella Terza A.

Questo libro è la testimonianza viva dell’orgoglio professionale.  E’ la storia di un medico e di un chirurgo che ha salvato vite umane ma non è mai sazio della risposta della scienza, perché anche la scienza e la medicina hanno i loro limiti invalicabili

E’ soprattutto la storia di un medico che vive tutta la sua esperienza professionale nel ricordo di un frate cappuccino, incontrato un giorno, per caso, dopo aver marinato la scuola, e che gli affida la sua profezia. Il frate gli dice “non diventerai mai un medico”, e Enzo si porta dietro il respiro pesante di questa frase per tutta la vita.

Vita e morte insieme, solitudine e visioni, tristezza e serenità, gioie e dolori, il primo incontro con il dolore nella vicina di casa, l’incomprensibile vicenda della nave Jolly Rosso, lo strano invito per un viaggio in America, l’offerta di lavoro in Calabria, e poi soprattutto, all’inizio della storia, quel lungo treno della notte che da Vibo Marina lo porta via di casa, lo strappa agli affetti della famiglia, perché lui vuole a tutti i costi diventare un medico.

Bellissima favola moderna. Dell’uomo che vestiva un eskimo verde. E poi, il desiderio forte del ritorno a casa, l’attesa spasmodica delle feste di Natale o di Pasqua per lasciare Perugia e rivedere il suo porto e la sua spiaggia.

Altro che Ulisse, l’Itaca di Enzo De Maria è ancora più bella e affascinante dell’isola dove Penelope tesseva la sua tela. Peccato che Marina alla fine si sia iscritta all’Università di Padova, lasciando sul corpo di Enzo i segni visibili della lacerazione e del distacco eterno, storia di un amore incompiuto, mai vissuto fino in fondo, e come tale forse rimasto inalterato nel tempo.

Sei “un uomo del Mediterraneo” gli dice continuamente Margareth, la ragazza irlandese che divide con lui la casa di Perugia, e dentro quella frase c’era tutto il sapore del sud del mondo, dove la gente ama prega canta piange e sorride nello stesso tempo e per le stesse ragioni di vita, dove la gente si abbraccia per strada anche senza conoscersi, dove il rispetto degli altri è quasi sacro, dove l’amore per le cose equivale all’amore per se stessi.

Tutto questo, negli anni e nel tempo, farà di Enzo De Maria un medico straordinariamente vicino ai suoi ammalati e al loro dolore, un uomo sconfitto tra gli sconfitti, ammalato tra gli ammalati, desideroso di libertà e di cieli blu quanto lo sono stati per tutta la sua vita i suoi pazienti.

Eccolo il suo mantra. “Studiando spesso in coppia, soprattutto nel periodo degli esami, sperimentavo come fosse vero il vecchio proverbio keniota “Se vuoi arrivare primo, corri da solo, se vuoi arrivare lontano, cammina insieme”.

Sono gli anni indimenticabili della Casa dello Studente a Perugia, sono gli anni dei primi esami, ore e ore, giorni e giorni, mesi e mesi, anni, sui libri e sugli atlanti di medicina. Ma questo era il gioco, e il gioco vale sempre la candela. Indimenticabile per lui rimane anche l’incontro con il Rettore del suo Campus, a cui aveva osato chiedere una stanza libera nell’ala delle studentesse.

“Da oggi -gli dice il Rettore-la casa della studentessa ospiterà anche uomini! Noi studieremo giorni come separare nella residenza l’ingresso delle donne da quello degli uomini! Ma tu continua a studiare, mi raccomando!”.

Quanti ricordi! Quante emozioni! Quante illusioni, magari tradite dal caso! Quante attese e quante speranze!

Indimenticabile per Enzo sarà l’essere chiamato a prestare soccorso nel cuore della notte su uno di quei treni del Sud e della notte che lui tanto detestava.

Bellissimo il racconto che fa qui dell’attesa e dell’emozione vissuta per un figlio in una notte drammatica o del giorno in cui deve rinunciare alla pasta al forno appena servita dalla moglie per la festa di compleanno del figlio perché un’esigenza in mare lo richiama al dovere o della ragazza incontrata sulla nave per le Eolie.

Ma questo libro è anche e soprattutto la grande magia della famiglia.

Dentro queste pagine troverete i gigli bianchi del papà di Enzo, i più belli che aveva in giardino li portava al Santuario di Sant’Antonio di Reggio Calabria, in segno di devozione per quello che lui e la sua famiglia avevano avuto dalla vita.

Bellissimo il racconto che Enzo fa dei gerani rossi di sua madre, degli abbracci famelici della vecchia nonna ed il sapore indimenticabile delle sue filejia al sugo, della 600 bianca di famiglia, e della bellezza struggente del suo mare e del suo porto. 

E’ il romanzo di una famiglia come tante, una famiglia del sud, potrebbe essere la nostra, che vive nell’attesa che il padre torni dal lavoro per stare a tavola con lui, con tre figli uno più innamorato dell’altro di un   padre che si tormenta per non potergli dedicare il giusto tempo.

Questo libro, mi si perdoni l’arroganza intellettuale, è l’eredità spirituale che un medico del passato lascia ai medici del futuro, perché in queste pagine c’è il sapore beffardo della vittoria e il profumo intenso della sconfitta, c’è la paura di non potercela fare, la paura di perdere il malato sul letto operatoria, la paura di non poterlo aiutare, la paura di non essere in grado di guidarlo verso l’altra vita, l’esaltazione del camice bianco che Enzo porta da ormai 50 anni e che non ha mai tradito.

Ho incontrato e raccontato in questi lunghi anni di giornalismo medici che considerano i malati come numeri, e li trattano come cavie, e se un giorno tu li chiami perché hai bisogno di loro o si negano al telefono o ti prendono in giro ed eludono le tue domande, convinti di poterlo fare in nome della loro fama, anche di fronte ad un malato terminale. Altro che giuramento di Ippocrate.

Con questo suo libro Enzo riscatta oggi anche le loro colpe e le loro omissioni più gravi.

Ma tra le pagine di questo romanzo familiare c’è anche, con toni molto soffusi e sfumati, il racconto di una storia d’amore.

È la storia bellissima e struggente tra un medico e una psicologa che un giorno si ritrovano per caso insieme accanto al letto di una giovane mamma, davanti alla stessa lettiga, in una corsa contro la morte, una corsa questa volta affidata alle correnti d’aria che un areo militare normalmente incontra lungo il suo tragitto.

Ve lo avevo detto all’inizio, questo libro è una favola moderna, bellissima e avvolgente, perché dentro c’è la vita di ognuno di noi.

A proposito, è quasi struggente il racconto delle lentiggini che Enzo fa di Nino, il suo vecchio compagno di banco, che parlava un’altra lingua e che sarebbe poi rimasto l’amico vero per il resto della sua vita.  Grazie dottore.

                                                                                                                                                   Pino Nano

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