
Il sacerdote che a Reggio era chiamato il missionario dei poveri diventa Arcivescovo di Frosinone e Anagni
Alla sua festa di insediamento arrivano i suoi amici più cari, il Ministro della Difesa Guido Crosetto, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani, il sottosegretario agli Esteri Maria Tripodi e il Presidente dei Senatori azzurri Maurizio Gasparri.
di Pino Nano
«In questi anni ho seguito da vicino la vita dei nostri militari in missione, ho vissuto con loro la loro situazione, e con loro condiviso la paura e la sofferenza. I nostri soldati, nonostante le difficoltà, hanno continuato a essere un importante punto di riferimento con una seria e paziente opera di mediazione. Non sempre c’è reale percezione di come, nelle missioni internazionali, i nostri militari operino per la pace svolgendo alti compiti di responsabilità, evitando che i popoli immersi nella povertà e nella guerra sperimentino l’abbandono della comunità internazionale. Così la celebrazione del Giubileo delle Forze Armate è stata anche occasione per dire un sentito grazie ai militari che hanno operato per la pace in questo tempo di guerra e per ringraziare Dio che li ha protetti da rischi maggiori, invocando assieme a loro il dono della pace».
Generale di Corpo d’Armata. Anzi no. Arcivescovo Emerito di Rossano-Cariati. No, non va bene neanche così. Arcivescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino e Anagni, forse così sarebbe meglio, anche perché domenica prossima lui si insedia ufficialmente nella sua nuova Diocesi di Anagni-Alatri, che fu la Città dei Papi. Ma mi pare di capire che non va bene neanche in questo modo. E allora? “Chiamatemi don Santo, come mi avete sempre chiamato”. La risposta mi lascia di stucco.
In realtà don Santo Marcianò come lui ama essere chiamato è un prete di provincia che in tutti questi anni ha letteralmente conquistato il cuore di Roma Capitale, e che per quasi dieci anni della sua vita è stato nei fatti il padre spirituale, il confessore, l’apostolo, il testimone e il messaggero delle nostre forze armate in ogni angolo del mondo. Soprattutto testimone di pace.
Eccolo il suo vero mantra.
“La pace -dice- ha “nomi nuovi”, oggi si sente dire. E uno di questi è proprio “giustizia”. Nella realtà italiana l’impegno dei militari per la giustizia è variegato e significativo. La difesa della legalità e della sicurezza, operata in contesti ad alto tasso di criminalità organizzata o microcriminalità; il servizio competente alla giustizia retributiva e finanziaria; la drammatica emergenza dei soccorsi di profughi e migranti in mare e della loro accoglienza; l’intervento in indagini sofisticate; la salvaguardia di luoghi naturali, come boschi e montagne… Solo pochi esempi, che danno ragione della missione straordinaria delle nostre forze armate e di polizia. E mi piace pensare che il loro servizio alla giustizia, non disgiunta dalla carità, abbia oggi anche un essenziale valore educativo: da una parte perché la formazione di ogni militare include la giustizia; d’altra parte, perché ha un valore educativo la loro testimonianza nei confronti di quei giovani che spesso purtroppo hanno scarsa educazione civica e, a causa del dilagante individualismo, faticano a percepire il senso della giustizia e della legalità”.
La sua ultima qualifica ufficiale per la gerarchia ecclesiastica è stata appunto quella di Ordinario Militare d’Italia, che tradotto in parole povere vuol dire “il prete dei soldati”. E in questa sua veste ufficiale, fortemente voluto a suo tempo da Papa Francesco, con cui lui aveva legato un rapporto di straordinario affetto personale, lo ha portato a vivere la sua vita tra il cuore di Roma, la sua residenza ufficiale è ai piedi del Quirinale, e le aree più calde del mondo.
Reggino di nascita, reggino di formazione, reggino dalla testa ai piedi, e come tale determinato, cocciuto, studioso appassionato di teologia e di politica internazionale, mai stanco di imparare cose nuove, abituato a studiare ogni problema come se fosse l’ultimo problema importante da risolvere, scrupolosissimo, e nelle analisi che fa attento anche ai minimi dettagli. In questo devo dire sembra più un militare che non un prete.
Un sacerdote illuminato, moderno, abituato a vivere ogni tipo di fuso orario, che in pieno covid ti riceveva a casa sua e ti abbracciava come se nulla fosse mai accaduto attorno a noi, come se la pandemia fosse un problema che non aveva mai superato il portone di ingresso della sua Chiesa. Un intellettuale anche che ha scritto le più belle omelie di guerra di questi ultimi 50 anni.
“Il dovere di proteggere, soprattutto i più deboli e indifesi, attraversa con chiarezza il magistero della Chiesa. E questo è vero nell’impegno per la pace che anima tanto i militari inviati in luoghi di conflitto quanto quelli chiamati a far fronte a calamità naturali o allarmi sociali, in Italia e all’estero. Penso ai terremoti, alle alluvioni, alle diverse emergenze che il nostro Paese ha vissuto. I nostri miliari sono sempre i primi ad arrivare e gli ultimi ad andare via, pure nelle fasi di ricostruzione. Come dimenticare il lavoro dei militari nella pandemia costato la vita a tanti di loro?”.
Don Santo Marcianò è questo ed altro insieme.
“Oggi ho salutato mons. Santo Marcianò, che si appresta a concludere il suo mandato. Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia, mons. Marcianò è stato una guida straordinaria e un faro che ha illuminato la via per tutti i militari e per l’intera Difesa. Ha saputo essere vicino a ognuno di noi, condividendo le gioie nei momenti sereni e donandoci forza nei momenti più difficili e tristi. A nome mio, di tutte le donne e gli uomini della Difesa, il più profondo e sincero ringraziamento per il suo instancabile sostegno e la sua preziosa testimonianza di fede e umanità”.
Sono parole del ministro della difesa Guido Crosetto il giorno in cui don Santo lascia il suo ruolo di guida all’Ordinariato Militare d’Italia.
“Saluto più solenne di questo non si poteva riservare ad un figlio di Calabria, per giunta ad un prete calabrese, reggino di nascita, che ha fatto del servizio per gli altri la sua missione di vita e che già da ragazzo – sottolinea mons. Salvatore Nunnari arcivescovo emerito di Cosenza e reggino come lui- era uno straordinario apostolo di fede e di speranza”.
Incarico record per lui ai vertici del comando militare della Chiesa. Vi ricordo che Papa Francesco, lo aveva nominato Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia il 10 ottobre 2013, il che significa 13 anni di ininterrotto servizio pastorale tra i nostri militari.
La notizia della fine del suo incarico come Ordinario Militare d’Italia ai vertici della Difesa la dà ufficialmente la Sala Stampa della Santa Sede, all’indomani della nomina del nuovo Ordinario militare per l’Italia, mons. Gian Franco Saba, con una nota assolutamente formale: “In conformità alla Legge italiana che regola il servizio di Assistenza Spirituale alle Forze Armate, mons. Santo Marcianò, al compimento del 65° anno di età, ha lasciato l’incarico di Ordinario Militare per l’Italia”.
L’ultima occasione pubblica, ma forse anche più solenne dei suoi ultimi giorni ai vertici dell’Ordinariato Militare d’Italia per don Santo Marcianò è il saluto ai cappellani militari che hanno vissuto insieme a lui questa straordinaria stagione di vita, e l’occasione è servita al sacerdote calabrese per riannodare i fili del discorso mai taciuto sulla pace.
“Abbiamo assistito, specie negli ultimi tempi, a una recrudescenza inattesa e a un progressivo diffondersi di tanti focolai di guerra, che interpellano in qualche modo anche i militari italiani. Penso soprattutto – dice Santo Marcianò nell’omelia della messa del Crisma – a coloro i quali sono impegnati nelle missioni Internazionali che, in terra o in navigazione, richiedono un crescente impegno. Li ho visitati sempre quando ho potuto, specie nelle feste; e soprattutto ho visto il modo in cui voi, cappellani, li affiancate in questa vita faticosa e rischiosa, aiutandoli a maturare nella loro vocazione di operatori di pace. Una vocazione che, in quei luoghi, cerca di puntare al dialogo, al rapporto con le popolazioni locali, al servizio umanitario, ma esige per tutti i militari una formazione adeguata, ovunque essi si trovino e qualunque ruolo ricoprano”.
Ecco a cosa servono oggi i cappellani militari.
“Da sacerdoti- sottolinea don Santo Marcianò– voi accompagnate personalmente tutti: dai militari nelle caserme agli allievi nelle Scuole; da coloro che sono impegnati nelle emergenze a quelli che svolgono compiti di alta responsabilità di guida, anche nel mondo delle Istituzioni. Siete accolti e cercati da loro e ne stimolate il servizio alla giustizia, al bene comune, alla pace, sapendo che, in ogni luogo, è un privilegio, lo è stato pure per me, portare Cristo e il Suo Vangelo, portare l’olio di consolazione che ci ha unti nell’Ordinazione e che va versato sui fratelli“.
Ora, al posto dei cappellani militari e dei campi di guerra da visitare e dove portare il conforto e la testimonianza viva della Chiesa di Papa Leone, don Santo Marcianò avrà a che fare con una delle diocesi più importanti del centro Italia, quella di Frosinone, o meglio con le due Chiese di Frosinone-Veroli-Ferentino e quella di Anagni-Alatri, che sono due diverse diocesi che insistono su circa la metà della provincia di Frosinone, ma che comprendono anche alcuni paesi delle province di Roma e Latina.
Parliamo di un territorio e di un bacino di utenza di oltre di circa 250mila abitanti, dove operano e vivono 170 sacerdoti, sacerdoti delle due Chiese, tra clero diocesano e religiosi, 139 parrocchie, 200 suore e 13 i diaconi permanenti. Un “popolo di Dio” importante dai numeri che abbiamo, e che si divide tra due diverse Cattedrali, quella di Frosinone, dove ha sede anche l’episcopio, e quella di Anagni.
Tutta la sua vita precedente don Santo Marcianò l’aveva vissuta tra Reggio e Rossano.
Nato a Reggio Calabria il 10 aprile 1960, si è laureato in Economia e Commercio nel 1982 presso l’Università degli Studi di Messina, e l’anno successivo ha iniziato il cammino di formazione verso il sacerdozio presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore. Nel 1987 consegue il Baccellierato in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense, e viene ordinato presbitero il 9 aprile 1988 nella Cattedrale di Reggio Calabria. Nel 1990 consegue il Dottorato in Sacra Liturgia presso il Pontificio Ateneo ”S. Anselmo”. Dal 1988 al 1991 è Parroco della parrocchia “S. Croce” in Santa Venere (RC), e fino al 1996 vicario parrocchiale nella parrocchia “S. Maria del Divino Soccorso” a Reggio Calabria. Dal 1991 al 1996 è Padre Spirituale nel Seminario Maggiore Pio XI e dal 1996 è Rettore del medesimo Seminario, dove insegna Liturgia e Teologia Sacramentaria. Dal 2000 ricopre anche l’ufficio di Direttore del Centro Diocesano Vocazioni. Nel 1997 diventa canonico del Capitolo Metropolitano. Ma è anche Vicario Episcopale per il Diaconato permanente e i Ministeri, e membro di diritto del Consiglio Presbiterale e del Consiglio Pastorale diocesano.
Il 6 maggio 2006 viene eletto alla sede arcivescovile di Rossano-Cariati e riceve la consacrazione episcopale il 21 giugno 2006.
“Ho amato profondamente la Chiesa di Rossano-Cariati! Ho amato profondamente la gente, costruendo rapporti personali ricchissimi; e mi sono sentito molto amato. Ho amato profondamente i sacerdoti, crescendo nella paternità episcopale, anzitutto nei loro confronti; certo non senza errori o fatiche, ma nella quotidiana, sincera e grata consapevolezza che il loro ministero era per me il primo vero dono e la prima responsabilità, un tesoro da curare e far crescere, nella luce più ampia e forte della comunione sacerdotale”.
Dal 2006 al 2013 è stato poi Segretario della Conferenza Episcopale Calabra. E come se tutto questo non bastasse è stato anche Segretario della Commissione Episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana.
Quando era ancora in Calabria, nella Sibaritide, appena diventato vescovo di Rossano, la gente comune lo chiamava “il prete degli ultimi”, il “vescovo dei ragazzi”, “il sacerdote della piana”, e la cosa forse più intensa che abbiano scritto di lui lo ha fatto il sindaco di Rossano Giuseppe Antoniotti nel saluto ufficiale pronunciato la sera del suo commiato dalla diocesi di Rossano-Cariati:”Mons. Santo Marcianò è stato un’iride per questa Città e per questo territorio. Si è interessato di tutto, sentendo, insieme a noi sindaci e amministratori, il peso della responsabilità di governare questo territorio difficile. È stato un buon Pastore che ha dato tutto agli altri – ha aggiunto Antoniotti – che nella sua semplicità ha saputo dialogare e far vedere il bello di Cristo e della Chiesa. Si è posto al fianco delle comunità che hanno voluto investire nel sociale. È sotto gli occhi di tutti l’imponente, impegnativa e meravigliosa eredità che Marcianò lascia in mano al Suo successore”.
Ufficialmente lui oggi è il nuovo Vescovo di Frosinone e Anagni, due Chiese insieme, due popoli accomunati dalla stessa sorte, due territori tra i più complessi del Lazio, un vescovo molto importante va detto, soprattutto molto amato e stimatissimo oltre Tevere, per la sua capacità di relazioni internazionali e la sua “preparazione tattica su un campo minato”, direbbero i militari che per anni hanno vissuto accanto a lui.
“Commuove – racconta al giornale dei Vescovi Italiani– leggere le storie di fede di alcuni militari, a partire dalle vicende belliche del ‘900. La fede ha davvero illuminato il buio delle trincee, ha permesso scelte di eroismo e santità, ha tessuto storie di carità, raggiungendo una luce di umanità paradossale nella disumanità della guerra; umanità, non bisogna dimenticarlo, custodita e coltivata da tanti cappellani militari. Da vescovo, oggi mi edificano tante esperienze di fede dei militari, tradotte in scelte coerenti e coraggiose: uomini e donne dediti al lavoro e alla famiglia; ufficiali che vivono il comando come servizio di paternità e non come potere; la solidarietà che eleva lo spirito di corpo dei militari e si prende cura dell’altro, con una delicata attenzione alle famiglie di chi perde la vita nello svolgimento del dovere. Infine proprio la disponibilità a dare la vita fino alla fine, per proteggere l’altro, per suo amore”.
Ma non è un caso che alla sua festa di insediamento come nuovo Padre della Chiesa di Ferentino, domenica scorsa, ci fosse in prima fila il nostro Ministro degli Esteri Antonio Tajani, e non è un caso che la domenica precedente, per il suo insediamento ufficiale a Frosinone, ci fosse in prima fila sull’altare del Duomo il Ministro della Difesa Crosetto e il Presidente dei Senatori azzurri Maurizio Gasparri.
Un uomo pieno di progetti e di idee ancora tutte da realizzare, per lui vale sempre il detto “Un grande passato alle spalle ma un orizzonte ancora tutto da vivere”, un condottiero che veste il clergymen con la stessa disinvoltura con cui fino a ieri indossava la tuta mimetica, e che non si ferma mai davanti a nulla, diretto come solo certi calabresi sanno esserlo, non manda mai a dire le cose che pensa, te le sbatte in faccia sorridendo, concedendosi qualche volta anche un buon sigaro di marca che gli alti ufficiali dello Stato Maggiore gli portano ancora, un sacerdote che non conosce pause o momenti di stanchezza, un testimone del nostro tempo in senso assoluto ed esclusivo, perché quello che ha visto lui nei paesi devastati dalla violenza della guerra appartengono solo alla sua storia privata e personale e che oggi fanno parte del grande bagaglio culturale di Santa Romana Chiesa.
Nel giugno del 2021 su Avvenire di Calabria don Santo racconta se stesso e lo fa ricordando il ruolo dei suoi maestri di vita e di religione.
“Le radici -dice- sono le radici della famiglia, della terra e del legame viscerale che noi reggini manteniamo sempre con essa. Un legame che, quanto più ci identifica, tanto più ci lascia liberi, perché non ci fa temere di perdere la relazione con la madre terra. Le radici, per un presbitero, affondano però ancor più nella Madre Chiesa; e io sento tutta la fierezza e la responsabilità di essere anzitutto figlio della Chiesa di Reggio, che mi ha dato il Battesimo e mi ha accompagnato alla pienezza del sacerdozio.Sento in me l’esperienza del laicato, del mondo giovanile nel quale sono cresciuto, dei gruppi di Azione Cattolica che, ai miei tempi, vivevano una stagione di straordinaria vivacità; la parrocchia, la diocesi, erano davvero casa per noi giovani: palestra di relazioni, di volontariato, di preghiera. So dunque per esperienza quanto servizio ecclesiale, oltre che fantasia spirituale, passi attraverso il popolo di Dio e questo mi consente, da vescovo, di vedere nei laici un dono e nei giovani non solo una promessa di futuro ma – come dice Papa Francesco – l’«oggi» della Chiesa”.
E dei suoi maestri di vita ha ancora un ricordo vivo e bruciante.
“La forza di questi pastori, ciascuno a suo modo- racconta a Davide Imeneo- ha sostenuto concretamente la crescita del mio sacerdozio, fin dalle prime difficoltà incontrate in seminario e poi in tutti i tornanti più complessi del ministero. Da alcuni ho ricevuto una sapiente guida spirituale, altri mi hanno riservato un profondo affetto paterno, altri ancora la loro preghiera, silenziosi compagni di cammino assieme a tante persone consacrate. Altri, infine, sono stati luminosi esempi, ai quali attingo ancora oggi: Monsignor Sorrentino, che mi ha ordinato presbitero; Monsignor Nunnari, con il quale ho avuto il dono di collaborare in parrocchia; e Monsignor Mondello, alla cui guida il mio sacerdozio è cresciuto e che, con la fiducia paterna per la quale gli sono infinitamente grato, ha curato e consacrato il mio episcopato. Infine, come dimenticare la santità di Monsignor Ferro, il quale, tra l’altro, aveva intravisto in me da ragazzo i germi della vocazione sacerdotale? Ma è soprattutto la fraternità del presbiterio reggino che mi ha nutrito e ancora continua a farlo”.
Ecco chi è in realtà il nuovo Vescovo di Frosinone e Anagni. Un testimone del nostro tempo, ma soprattutto -lo è stato fino a ieri- un messaggero di pace nelle aree più calde e difficili del mondo.

Il miracolo della mula bianca
Non credo possa esserci immagine più iconica di questa foto, e che è la foto che alla fine poi noi abbiamo scelto come cover di questo speciale dedicato a mons. Santo Marcianò. È il vescovo che in sella alla mula bianca attraversa il centro cittadino di Ferentino, per via di una tradizione secolare che qui tra Ferentino e Alatri in realtà non è mai morta.
È del tutto inusuale vedere oggi un vescovo che sale a cavallo di una mula e accetta di vivere il suo giorno di trionfo, perché tale è stata la visita di don Santo a Ferentino, a bordo di una mula. Ma quando si trattò di organizzare la giornata della sua accoglienza nella città di Ferentino e la gente del luogo gli propose di rinnovare “per tutti noi” la tradizione del rito della mula bianca don Santo non ebbe un solo attimo di titubanza. Accettò immediatamente, perché aveva capito che quello la gente del luogo voleva da lui. Voleva un vescovo che per un giorno montasse la mula bianca, che per tutti loro è ancora oggi simbolo di salvezza e di un miracolo strettamente legato alla storia di queste terre.
Ma cosa c’è dietro la bellezza di questa foto, che esalta la semplicità e la modestia dei grandi Padri della Chiesa?
“L’11 gennaio del 1132 – si racconta a Ferentino– in una fredda giornata d’inverno di avvenne un miracolo. Una mula con sul dorso l’urna contenente le sacre spoglie del Papa Sisto I, mentre percorreva la via Latina, in direzione di Alife, giunse ad un bivio dopo la città di Anagni, e invece di proseguire per Alife, la mula cambiò improvvisamente direzione, imboccando un sentiero impervio verso Alatri. Arrivata nell’antica Aletrium, la mula si diresse su per la collina, verso la Cattedrale di San Paolo dove si fermò, inginocchiandosi. “Il Santo aveva scelto il suo popolo”.
Le spoglie del Santo furono accolte dal Vescovo e dal clero come se fossero state inviate da Dio e quindi furono considerate la manifestazione di un miracolo. Collocate all’interno di un altare costruito in pochi giorni per custodirle, si dice che, appena giunte ad Alatri, l’aria malsana si purificò e tutti i cittadini infermi per via della peste che aveva devastato quelle terre riacquistarono la salute.
Da quel giorno gli alatresi suggellarono un vero patto di devozione e adorazione nei confronti del Santo Patrono”.
Ferentino come Alatri, e don Santo questa volta erede moderno dell’immagine di Papa Sisto a bordo della mula bianca. Per la gente di Ferentino una giornata questa davvero indimenticabile. (Pino Nano)

Raffigurazione pittorica della mula con le reliquie di San Sisto I sul dorso, accolta dal Vescovo di Alatri.Autore: Eugenio Cisterna, 1932, Cattedrale di San Paolo, Alatri

La mia prima Pasqua in Afganistan
Marzo 2016, don Santo Marcianò incontra i Militari Italiani a Herat dove in onore del Contingente italiano celebra la Santa Messa di Pasqua.
Sono momenti di intensa spiritualità quelli vissuti dai militari italiani impiegati nella missione Resolute Support in Afghanistan. E’ per loro una presenza importante quella dell’Ordinario Militare per l’Italia, venuto a celebrare la Pasqua e ad aprire la Porta Santa presente a Camp Arena. Ma sarà ancora più unica l’esperienza dei 15 militari che, nell’occasione, ricevono da lui il Sacramento della Cresima.
Dopo aver trascorso il giovedì Santo con i soldati italiani presenti presso l’hub aeroportuale di Al Minhad, negli Emirati Arabi Uniti, Monsignor Marcianò giunge ad Herat venerdì pomeriggio. La tradizionale Via Crucis del venerdì Santo- ricorda- sotto uno straordinario cielo stellato, are di fatto il percorso spirituale del triduo.
Nella giornata di sabato, don Santo ha dedica tutto il suo tempo al colloquio con tutte le articolazioni del contingente, incontrando i militari sia in gruppo sia singolarmente, e al termine di una giornata davvero “campale” attorniato dalla maggior parte dei militari liberi dai servizi operativi, celebra una toccante Veglia Pasquale.
Indimenticabile, dice lui oggi, ma lo fu anche per il nostro Contingente Militare Italiano tutto.
Siamo dunque a domenica di Pasqua, che non è solo l’occasione per gli auguri corali e i messaggi alle famiglie rimaste in Italia ad aspettare i loro figli e i loro mariti o i loro fratelli, ma è anche l’occasione speciale per cresimare 15 di loro. Alla cerimonia ci sono tutti i nostri militari italiani, ma ci sono anche i militari alleati. Una preghiera comune, un abbraccio condiviso, una stretta di mano che vale più di una medaglia al valore.
“I sacramenti -dice don Santo- sono il sigillo di una relazione d’amore”.
Al termine della Celebrazione, si vive poi una delle fasi più significative di questa memorabile Visita Pastorale, è l’apertura ed il passaggio del Vescovo, seguito dal Cappellano del TAAC West, Don Carlo Lamelza, e da tutti i militari presenti, attraverso la Porta Santa.
Al momento dei saluti, la maggior parte di loro è in lacrime. Lacrime di commozione, di riconoscenza, di amicizia. Don Santo avrà parole di affettuoso ringraziamento per tutti i soldati del Contingente italiano, “per la passione unica con cui svolgete il vostro servizio, per i sorrisi e gli sguardi determinati e sereni che mi avete riservato e nei quali si può leggere la forza con cui sapete ogni giorno rinnovare il vostro servizio al Paese”.
Sarà infine il Generale D’Ubaldi, nel ringraziare Monsignor Marcianò “per una visita destinata a costituire un momento incancellabile della missione del Contingente italiano”, a ricordare come l’impegno nella fede non costituisca un fattore di debolezza, bensì una manifestazione di solidità nello svolgimento quotidiano e coraggioso, del proprio dovere.(Pino Nano)

Quel meraviglioso Natale a Kabul
di Pino Nano
L’agenda di don Santo Marcianò, è davvero unica al mondo.
Credo che nessun Ministro della Difesa del passato abbia mai viaggiato quanto lui nelle aree più calde del mondo, e credo che nessuno più di lui in tutti questi ultimi 20 anni di vita Repubblicana abbia lasciato nei cuori dei nostri militari la commozione che invece don Santo ha trasmesso a tutti loro.
Rimarrà indimenticabile la notte di Natale trascorsa tra i nostri militari a Kabul. Era il 2017, e l’allora Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia, Monsignor Santo Marcianò, accompagnato dal suo segretario particolare Don Santo Battaglia (guarda caso, reggino anche lui), giunge in Afghanistan, per trascorrere il Natale insieme ai militari italiani impiegati nella missione Resolute Support.
Per il “prete reggino”, o meglio per i due sacerdoti reggini sarà un bagno di folla.
Ricevuto a Kabul dal Generale di Divisione Antonio Bettelli, don Santo prosegue il suo viaggio per Herat, sede del Contingente italiano del Train Advise Assist Command West (TAAC-W) e accolto dal Comandante Generale di Brigata Gianluca Carai, e da tutta la famiglia militare in uniforme, Monsignor Marcianò va a visitare la base militare di Camp Arena fermandosi nei luoghi dove i militari prestavano il loro quotidiano servizio.
Emozioni su emozioni, e come accade in guerra, qui si è davvero tutti amici, tutti una cosa sola, niente gradi, niente differenze di ceto o di condizione sociale, accomunati tutti insieme da un senso esasperato e bellissimo della patria lontana, e da un senso del dovere e dell’onore nella consapevolezza di dover servire il Paese.
Nell’occasione della santa messa don Santo manifesta la propria gratitudine per il lavoro svolto dal personale italiano a favore del processo di pace e ricostruzione delle istituzioni afghane: “Voi -dice- siete operatori di pace tra la gente e per la gente. Voi siete quelli che più sono a rischio e mettono a rischio la propria vita; questa è l’altissima motivazione del militare che lo porta a vivere per il bene degli altri. La presenza dei nostri soldati in Afghanistan è necessaria per aiutare un popolo che ha bisogno di aiuto, per garantire la stabilità sociale, la custodia del dialogo, la fraternità; voi siete qui per permettere che agli afghani vengano garantiti i diritti fondamentali dell’uomo, quelli della libertà, dell’uguaglianza, del progresso, del rispetto della dignità della donna”.
Dopo il trasferimento a Kabul, Monsignor Marcianò celebra la messa di Natale anche presso la cappella dell’ambasciata d’Italia, riunendo la comunità italiana che presta servizio presso la capitale. Anche qui un bagno di saluti e di abbracci corali, di ricordi personali e di affetti senza tempo.
Nell’occasione di questa sua visita a Kabul, il Generale Bettelli rimarca la condivisione dei valori cristiani con quelli dell’etica militare, fratellanza, sacrificio, senso del dovere, coraggio e impegno, mentre l’Ordinario Militare non fa che ringraziare uno per uno i soldati del contingente italiano e rinnovareo il messaggio di vicinanza di tutta la chiesa per “coloro che come voi lavorano per gli ultimi”.
-Don Santo se lo ricorda quel Natale?
“E come potrei dimenticarlo? Se potessi lo rifarei ogni anno. I nostri militari in missione di pace nelle aree di guerra per il mondo sono dei veri eroi moderni, e come tale li porterò nel mio cuore per sempre”.


Vi racconto mio padre Paracadutista
5 giugno 2017, primo pomeriggio il Generale di Corpo d’Armata Danilo Errico, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, riceve l’Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia S. E. Monsignor Santo Marcianò per consegnargli la Croce al Merito di Guerra conferita al padre paracadutista nella Divisione “NEMBO” durante il secondo Conflitto Mondiale.
Altro che un giorno solenne! Molto di più per il giovane sacerdote calabrese, che dalle mani del Capo di Stato Maggiore riceve una delle onorificenze più importanti del mondo dell’esercito e la riceve in nome e in onore di suo padre Giuseppe.
“Il Signor Giuseppe Marcianò, classe 1920 e papà dell’Arcivescovo- sottolinea il Capo di Stato Maggiore- chiamato alle armi fu trasferito, a domanda, alla 184^ Divisione Paracadutisti “NEMBO” e assegnato alla 42^ compagnia paracadutisti del XIV Battaglione. Nel periodo giugno-settembre 1943 ha partecipato alle operazioni di guerra svoltesi in Sardegna e, dal maggio al settembre 1944, a quelle sul territorio “continentale”.
Bene, “Per la sua partecipazione alla Campagna di Guerra del 1943, il 30 settembre 1971, gli venne poi concessa la Croce al Merito di Guerra ritirata soltanto oggi dal figlio”.
Questo incontro tra don Santo Marcianò e il Generale Danilo Errico diventa dunque l’occasione migliore non solo per ricordate tutti insieme il vecchio paracadutista reggino padre di don Santo -che allora vene addirittura considerato un eroe per il coraggio e l’abnegazione dimostrata in guerra- ma anche per sottolineare da parte del Capo dello Stato Maggiore “il suo personale apprezzamento, unitamente al riconoscimento di tutti gli uomini e le donne dell’Esercito, per lo sforzo costante e continuo da parte dei rappresentanti della Curia Militare che, con la loro abnegazione e impegno, in Patria come nelle missioni militari all’estero, riescono a garantire l’adeguato sostegno spirituale e interconfessionale a tutti i militari e alle loro famiglie”.
A chiusura della visita, don Santo Marcianò, nel ringraziare il Capo di Stato Maggiore per il “prezioso ricordo di mio padre Giuseppe”, esprime parole di compiacimento per l’operato, l’impegno, la determinazione, la professionalità e l’umanità che, oggi come all’ora, dimostrano quotidianamente “i nostri militari a supporto di tutti coloro ne abbiano bisogno, confermando la vicinanza e la stima dell’Ordinariato militare”.
Squilli di tromba, e gli onori oggi sono tutti per Giuseppe Marcianò. Da padre in figlio, è il caso di dirlo. (Pino Nano)

Il suo braccio destro
Don Santo Battaglia è il segretario particolare di Mons. Marcianò, è la sua ombra, il suo fantasma, il suo braccio destro, l’amico personale più fidato e più legato a lui dalle mille circostanze della vita. Vive praticamente con lui da oltre 15 anni e come suo segretario particolare all’Ordinariato Militare d’Italia don Santo ha vissuto con l’Arcivescovo le esperienze più belle e più intense del loro mandato pastorale. Dove c’è uno c’è l’altro, e guai a pensare che i due non vivano in simbiosi, perché mai come in questo caso si tratta delle due facce della stessa medaglia, e questo è davvero molto bello.
Don Santo Battaglia, è nato a Sambatello l’8 giugno del 1969, ed è praticamente cresciuto nella parrocchia guidata a San Giovanni di Sambatello da don Italo Calabrò, quello che il prossimo santo di Calabria, uno dei grandi testimoni della chiesa moderna in fondo allo stivale, respirando e vivendo in prima persona e in presa diretta gli insegnamenti e l’esempio di questo apostolo moderno al servizio degli ultimi.
Dopo aver frequentato il liceo scientifico di Reggio Calabria, don Santo Battaglia viene Ordinato sacerdote da S.E. Mons. Vittorio Luigi Mondello nella cattedrale di Reggio Calabria il 29 giugno del 1996, dove svolge gli incarichi di Vicario parrocchiale prima e poi di vice rettore del Seminario Arcivescovile Pio XI di Reggio Calabria. Conseguito il Baccalaureato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense, successivamente consegue prima la Licenza e successivamente il Dottorato in Teologia Morale presso la Pontificia Accademia Alfonsiana. Dal 2006 è Segretario personale di S.E. Mons. Marcianò, ma + stato anche lui cappellano militare dal 2014 al 2025.
Insieme i due condividono questo amore viscerale per Reggio Calabria e la sua gente e appena hanno un solo buco di tempo scappano a casa propria per ritrovare i ricordi del passato. Dopo tanti anni di lontananza, i ricordi almeno non muoiono mai. (p.n.)

La grande Festa di Anagni
(Omelia alla Celebrazione Eucaristica per l’inizio del ministero pastorale nella Diocesi di Anagni-Alatri Cattedrale di Anagni, domenica 21.09.202)5
di Santo Marcianò
Carissimi, «Questa è l’ora dell’amore!».
Lo esclamava Papa Leone XIV nella Messa di inizio del Ministero Petrino. Parole che desidero fare mie, leggendovi una strada tracciata per la Chiesa universale e la nostra Chiesa particolare, profondamente unita a Pietro: terra “dei Papi” che ha pure dato i natali a Leone XIII, del quale il nostro Pontefice ha voluto prendere il nome. Segni belli, che sembrano illuminare delicatamente il cammino che oggi iniziamo, unendosi alla Luce splendente della Parola di Dio, lampada per i nostri passi (cfr Salmo 118).
«Questa è l’ora dell’amore!».
L’«ora» si riferisce al presente, necessariamente orientato verso il futuro, il nuovo che ci attende; ma questa «ora», secondo il significato biblico, non è solo krònos ma kairòs, non è un semplice momento ma tempo di grazia, pienezza del tempo. L’«amore», così, è novità da accogliere, pienezza da perseguire, grazia da chiedere; ed è tutt’uno con la missione di essere, continua il Papa, «una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato».
Sì, è proprio strada tracciata, dentro la quale vedo quasi delinearsi il filo conduttore del nostro Programma Pastorale: una comunione, un’unità che ci chiama, anche nella complementarietà tra le due Diocesi, e può essere seme di riconciliazione e pace pure per altri. Le Letture oggi ci aiutano a decifrarla meglio, accostando l’amore ad alcuni significati e declinando alcune polarità.
La prima polarità è: amministratore – padrone.
Nel Vangelo (Lc 16,1-13) c’è un amministratore e c’è un padrone che gli affida una ricchezza a cui essere fedele.
L’ora dell’amore è l’ora della fedeltà!
E la fedeltà è anzitutto fedeltà di Dio. C’è un padrone che ha l’iniziativa; è Qualcuno a cui tutto e tutti appartengono, nell’amore e nella libertà. È Lui, il Signore, che oggi ci raduna e ci consegna l’uno all’altro, in un’appartenenza reciproca. Noi ci apparteniamo perché, come nel Vangelo, il Padrone si fida; affida al servo, a noi, il suo patrimonio.
«I singoli vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata», dice il Concilio. Sento con forza e commozione questo affidamento. Sento la gratitudine e la grande responsabilità di avere affidato un popolo, una terra bellissima, una storia ricca di cultura e arte – quanta bellezza e arte in questa Cattedrale! -, ma che porta anche le fatiche e le sofferenze, le ingiustizie da sanare e la pace da costruire, invocare, sognare… E questo affidamento, Dio lo fa non solo a me ma a tutta la nostra comunità, a tutti i cristiani, soprattutto a voi, carissimi sacerdoti. Come rispondere a tale affidamento?
Ecco la seconda polarità: sperperare – amministrare.
Il servo malvagio «sperpera» il patrimonio del padrone. Luca usa lo stesso verbo greco (diaschorpìzein) parlando del figlio maggiore della parabola il quale, andato via da casa, aveva «sperperato» (Lc 15,13) i beni lasciati dal padre. «Sperperare» è perdere il valore delle cose; «rendere conto» è entrare nella logica della responsabilità, non solo di qualcosa ma verso qualcuno: ecco l’amore.
L’ora dell’amore è l’ora della responsabilità!
Nell’attuale cultura consumistica, non si comprende come tutto sia dono da accogliere, custodire, valorizzare; e si finisce per sperperare, dilapidare l’eredità donata dal Padre. Sperperare è «calpestare il povero» «sterminare gli umili del paese», dice la prima Lettura (Am 8,4-7); invece di questa «amministrazione», di questa “oichonomìa” – è il termine greco del Vangelo – bisogna rendere conto!
L’ora dell’amore invoca responsabilità verso i poveri, gli ultimi, il creato; addita una concreta economia di rispetto, condivisione, solidarietà. Nessuno può essere calpestato: non da economie inique, talora favorite da scelte politiche o internazionali, né dall’iniquità di economie nascoste dietro presunti diritti. Non si può accettare l’industria della morte che vìola la terra e sopprime gli esseri umani – uomini donne, bambini… quanti bambini! – con armi o rifiuto, violenze o abusi; ma neppure quella che elimina e abbandona vite deboli, malformate, non volute, malate, morenti. Quanto sperpero di persone, quanto sperpero di umanità! Vorrei che le nostre comunità – quella ecclesiale e quella civile – fossero coraggiose e unite nel dire “no”, dicendo un grande “sì” all’umano, dunque a Dio.
E qui c’è un’altra polarità: Dio – la ricchezza.
Il Padrone è uno, «non possiamo servire a due padroni», afferma Gesù in modo molto chiaro.
L’ora dell’amore è l’ora della verità.
E «la verità stessa dell’essere-uomo» è «la prima delle sfide più grandi, di fronte alle quali l’umanità oggi si trova», leggiamo nel Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa, un Documento fondativo che desidererei con voi rileggere, meditare, applicare all’oggi. Ricordando a Carpineto Romano Leone XIII, Benedetto XVI spiegava come «all’interno della realtà storica i cristiani, agendo come singoli cittadini, o in forma associata, costituiscono una forza benefica e pacifica di cambiamento profondo, favorendo lo sviluppo delle potenzialità interne alla realtà stessa. È questa – aggiungeva – la forma di presenza e di azione nel mondo proposta dalla dottrina sociale della Chiesa, che punta sempre alla maturazione delle coscienze quale condizione di valide e durature trasformazioni».
Oserei oggi chiamare a raccolta tutta la comunità, i laici, le associazioni, il mondo della cultura, dell’educazione, dell’arte, i responsabili della cosa pubblica. Che bello se riuscissimo a interrogarci tutti su quale patrimonio di valori e quale realtà sociale vogliamo costruire e lasciare ai giovani! La Chiesa – ancora il Compendio – propone un «umanesimo integrale e solidale… all’altezza del disegno di amore di Dio». Un programma meraviglioso: vogliamo provare a svolgerlo assieme, Chiesa e comunità civile?
È difficile ma la Parola di Dio ci offre un altro binomio: fedeli in cose di poco conto – fedeli in cose importanti.
Basta iniziare dal poco, con umiltà verso Dio e i fratelli.
L’ora dell’amore è l’ora dell’umiltà!
Mi piace scorgerla nell’immagine eloquente del Salmo responsoriale (Sal 112 [113]): un Dio che «si china» a «guardare e sollevare» i deboli. Chinarsi è servizio e condivisione della sofferenza, Gesù ce lo ha insegnato portando per amore la Sua Croce e, nella Sua, le nostre. Potremmo tradurre tale umiltà in una frase di Madre Teresa di Calcutta: «fare piccole cose con grande amore». E lei lo faceva chinandosi sui più piccoli, i poveri, i bimbi non nati, i morenti abbandonati per strada; se uno di costoro è riuscito – narrano le biografie della Santa – a percepire che “stava morendo da re dopo aver vissuto tutta la vita da pezzente”, è perché questo chinarsi fa sentire al fratello la sua grandezza, la sua dignità intangibile.
È l’ora di chinarsi umilmente sull’umana dignità, servendo e contemplando in ciascuno l’immagine di Dio al quale tutti apparteniamo. Diceva qui ad Anagni Giovanni Paolo II: «Non rimane allora che il riconoscimento della propria totale dipendenza dall’Altissimo: la vera saggezza è solo l’umiltà di fronte a Dio, che di conseguenza diventa senso dell’adorazione, della confidenza nel suo amore, della fiducia nella sua Provvidenza, anche quando i suoi disegni possono apparire oscuri e intricati».
Ed ecco l’ultima polarità: figli del mondo – figli della luce.
«Dio è luce» (1Gv 1,5) e la Luce è in noi – è bellissimo! – perché ne siamo figli. Quel Padrone, in realtà, è un Padre! Per cogliere questa Luce, in una cultura ferita dal vuoto del padre – le scienze umane e l’esperienza lo insegnano -, abbiamo bisogno di una forte relazione con Lui.
L’ora dell’amore è l’ora della preghiera!
Nella seconda lettura (1Tm 2,1-8), Paolo chiede di fare «preghiere, suppliche, ringraziamenti». Io lo chiedo con fiducia a consacrati, contemplativi, monaci e a ogni cuore, perché la preghiera conosce e intercetta tutti i linguaggi umani, dona voce a tanti stati d’animo; e nella preghiera di pochi ci sono tutti, come nella preghiera di Gesù al Padre.
In questa Cattedrale, per provvidenziale disegno, 770 anni fa veniva canonizzata una grande madre di preghiera, Chiara D’Assisi: chiederemo anche a lei di insegnarci a pregare, a crescere sempre più nell’intimità con Dio.
Dio è Luce! Ma per vederla occorre andare nell’interiorità, direbbe Sant’Agostino, cercandoLa con silenzio, tempo, desiderio. È Luce consegnata anche ai «figli di questo mondo», alle tenebre umane che non l’accolgono ma non potranno vincerla (cfr. Gv 1,5). È Luce affidata alla nostra contemplazione e a tutta la nostra Speranza.
Cari amici, nel Giubileo della Speranza, la Luce rifulge particolarmente nell’esperienza della misericordia e del perdono. Il Papa lo sta ripetendo in tante catechesi e, se ci pensiamo bene, la Parabola evangelica di oggi rivela che questo è il vero patrimonio che il Padrone lascia in eredità.
Forse non capiamo fino in fondo – e tra gli studiosi ci sono diverse interpretazioni – perché quell’amministratore dovrebbe essere lodato per aver diminuito un debito che non era suo. Ma una cosa è certa. Il Cuore di Dio, ricco di misericordia e perdono, è così: riduce il nostro debito, lo cancella addirittura. E ci insegna a «non avere altro debito se non l’amore vicendevole», come dice Paolo (Rm 13,8).
Lo ha capito bene Matteo, l’Apostolo che oggi ricordiamo. Dapprima era un amministratore disonesto, poi incrocia lo sguardo di Gesù: un passaggio reso significativamente con una grande Luce nel famoso dipinto del Caravaggio. I suoi occhi si aprono, si guarda dentro e cambia vita seguendo il Signore. Questo Padrone non possiede, dona; non accumula, condivide; non tiene l’altro sotto i piedi ma lo solleva, riconoscendo e restituendo dignità a tutti. Questo Padrone è il nostro Padre. E pur se la sua è un’economia “in perdita”, Egli ci consegna un tale Programma di vita affidandoci la vita di tutti, affidandoci gli uni agli altri.
Fratelli, sorelle, è una gioia iniziare il cammino insieme, in modo sinodale, con questa consapevolezza, illuminati dall’esempio dei nostri santi, Magno e Sisto, e dall’umiltà gioiosa di Maria, da cui sgorga il canto del Magnificat. Con Lei e come Lei, Dio ci renda capaci di vivere l’«amore» in ogni «ora» della vita e trasformare ogni «ora» di vita in «amore». Lo ringrazio con voi e per voi e Gli chiedo di benedire il nostro cammino.
«L’anima mia magnifica il Signore»! Magnifichiamolo insieme e per sempre!
E così sia!
Mons.Santo Marcianò
*Per le foto di Anagni, di Paolo Carnevale, vorrei ringraziare il direttore di “AlessioPorcu.it”.


Il Saluto alla città di Frosinone
Carissimo Signor Sindaco, grazie!
Grazie per il saluto, l’accoglienza, il “benvenuto”: sono i primi e concreti segni di quel «calore» che Ella si augura mi venga donato da questa città, nella quale mi sento già a casa. È la sensazione più bella per iniziare un cammino comune: Chiesa e Istituzioni, «città dell’uomo» e «città di Dio», direbbe S. Agostino. E la «città» non è semplicemente un perimetro spaziale ma rappresenta una terra, una storia, una cultura e, soprattutto, un insieme di relazioni che caratterizza l’essere umano e gli permette di stare al mondo sentendosi a «casa»; perché anche la «casa» non è solo uno spazio ma è quel «calore» che ci aiuta a essere davvero «umani». Grazie, perché entrando in questa città, sento con commozione l’eco di una tale bellezza e umanità!
Eppure, a volte le città diventano disumane e disumanizzanti; sono afflitte da difficoltà e drammi che non possiamo negare o dimenticare, neppure in un momento gioioso come questo. Tanti sono i problemi sociali, economici, ambientali, legali, della nostra terra; mentre essa mi accoglie, io li accolgo nel profondo del cuore, assieme alla sua splendida storia, all’arte, all’identità, certo che collaboreremo in sintonia crescente per affrontarli: a servizio di ogni persona, della sua vita e della sua dignità; a servizio del bene comune, della giustizia, della pace. E sarà dono e impegno, per me, proseguire nel rapporto fecondo con le Istituzioni e i singoli cittadini.
Ci si potrebbe chiedere: cosa può dare la comunità ecclesiale alla comunità civile? Cosa aspettarsi dal nostro nuovo cammino? Non certo un utopistico annullamento delle difficoltà. Anche nella Bibbia, peraltro, la «città» è simbolo di contraddizioni e fragilità umane. C’è la città di Caino (Gen 4,17), la prima città, costruita dopo che l’uomo ha infranto il rapporto con Dio, con il creato, con il fratello, versandone addirittura il sangue in modo violento. C’è Babele, confusa da incomprensioni e contrasti tra lingue e popoli diversi (Gen 11,9). C’è Gerusalemme, ambita e attaccata, continuamente distrutta e ricostruita. Ma, attraverso queste e altre città, si arriva all’ultima, la cui visione chiude tutta la Sacra Scrittura: è quella che nel libro dell’Apocalisse (cfr. Ap 21) viene definita come la «Nuova Gerusalemme»: in essa non c’è più morte, affanno, pianto; e le mura – che in genere chiudono, difendono e isolano – sono corredate da splendide porte spalancate sul mondo, dalle quali tutti possono e possiamo entrare. Essa rappresenta la «città di Dio», dove ingiustizia, incomprensioni, violenze sono superati: non in un ipotetico futuro ma con scelte concrete e quotidiane dei singoli e dei responsabili della “cosa pubblica”; rappresenta la Chiesa che vive nel mondo e per il mondo, infondendovi la Speranza dell’“oltre” di cui tutti possiamo essere capaci, grazie a gesti di bene, solidarietà, fraternità, amore; rappresenta la nostra città, nella quale tutti dobbiamo sentirci a casa e che deve essere casa accogliente per tutti, soprattutto i piccoli, i poveri, i sofferenti, gli stranieri, com’è oggi per me. Camminiamo insieme: lo sarà sempre di più!
Grazie, signor Sindaco!
Grazie, Frosinone!
Mons. Santo Marcianò

LA «RIVOLUZIONE DELL’AMORE»!
(Omelia alla Celebrazione Eucaristica per l’inizio del Ministero Pastorale nella Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino – domenica 7 settembre 2025)
di Santo Marcianò
Carissimi fratelli e sorelle,
«Una folla immensa andava dietro a Gesù». Inizia così il brano evangelico della Liturgia di questa domenica (Lc 14,25-33), invitandoci a guardare a Cristo in cammino verso Gerusalemme. Anche noi, questa sera, siamo in tanti. E ciò mi commuove, è bello e vi ringrazio. Siamo qui per legami di affetto o appartenenza ecclesiale, ma siamo qui per seguire il Signore. A noi Egli ricorda che siamo comunità di discepoli e apostoli. E il cammino che oggi iniziamo è anzitutto discepolato. È essere insieme, vescovo e popolo, per camminare dietro a Gesù.
La Chiesa è sempre in cammino e, iniziando il nostro cammino, verrebbe spontaneo chiedersi quale sia il Programma Pastorale. Pregando, nei giorni scorsi, ho colto che esso ci veniva consegnato dalla Parola di Dio di oggi, straordinariamente calata nell’oggi della Chiesa, con i primi passi del Ministero di Papa Leone. Lo riassumerei in una sua pregnante espressione: la «Rivoluzione dell’amore». Ecco il Programma del mio ministero e del nostro comune discepolato! Anche le parole di Gesù nel Vangelo sono, a loro modo, rivoluzionarie; invocano una rivoluzione dell’amore. Per spiegarla Gesù, dice Luca, «si volta».
L’evangelista Luca è un pittore, nelle immagini sa trasferire bene gli stati d’animo; così, nel voltarsi di Gesù, possiamo vedere un cambio di prospettiva che oggi viene richiesto anche a noi. E la rivoluzione è proprio cambiamento, capovolgimento: sul piano personale e relazionale, ecclesiale e sociale.
La Rivoluzione dell’amore ci coinvolge sul piano personale, dunque è prima di tutto interiore. Gesù, cioè, sconvolge la nostra idea di amore; sembra quasi invitarci a «odiare» proprio coloro ai quali sarebbe più naturale voler bene. Il termine greco miséo è molto forte ma non si riferisce a quel sentire emotivo che, seppur importante, non arriva a spiegare l’amore. La Rivoluzione di Cristo, oggi ancor più necessaria, parte proprio dal capire cosa sia l’amore. «L’uomo non può vivere senza amore», gridava San Giovanni Paolo II all’inizio del suo Pontificato. E amare non è sentire o sentirsi bene ma «perdere», donare la propria vita, spiega Gesù; portare la «croce», con Lui e come Lui: ecco la Parola rivoluzionaria!
Come vorrei che questa Parola raggiungesse anzitutto il cuore dei giovani, perché possano crescere in un amore che è vera passione solo se è rispetto, sacrificio. La Rivoluzione dell’amore, cari giovani, ci pone dinanzi l’amore non solo come sentimento, ma come dinamica di tutta la persona: corpo, psiche, spirito, intelligenza, volontà. L’hanno capito bene Carlo Acutis e Piergiorgio Frassati, che il Papa proprio oggi ha proclamato Santi: due giovani come voi, i quali hanno scelto di donarsi per amore, diventando dono per tutti. Ricordate cosa diceva Carlo: “Dio ha scritto per ognuno di noi una storia d’amore unica e irripetibile, ma ci ha lasciato la libertà di scriverne la fine”.
C’è dunque una volontà d’amore racchiusa nel dono della vita: «donare sé stessi è la felicità», vi ha detto il Papa nella meravigliosa Veglia di Tor Vergata. E c’è una volontà d’amore racchiusa nella Croce di Cristo e dell’uomo. Amare significa accorgersi di questa croce e portarla; significa, dice ancora Leone XIV citando Benedetto XVI, lasciarsi «spezzare il cuore».
Tanti, tra noi, hanno il cuore spezzato da tribolazioni o sofferenze che li toccano personalmente: per aver subito torti, ingiustizie, violenze; perché visitati dalla malattia o dalla solitudine; o anche perché capaci di una compassione che permette loro di partecipare alle sofferenze dei fratelli, quelli vicini e quelli lontani. Sì, bisogna lasciarsi spezzare il cuore dalle immagini strazianti della guerra, con le morti continue e crudeli dei bambini, così come dalle tante situazioni di povertà, rifiuto, isolamento, bisogno che sono tra noi. Quanti sofferenti abitano le nostre città… quanti si prendono cura dei loro cuori spezzati, lasciandosi spezzare a loro volta il cuore! Non siete soli, vorrei gridarlo a tutti: la Chiesa non vi lascia soli! Sono fortemente convinto che nessun programma pastorale può esistere laddove non ci si impegni a superare l’indifferenza che, diceva Madre Teresa di Calcutta, è oggi il più grande male. Come Paolo a Filemone nella seconda Lettura, Gesù consegna a ciascuno l’altro quale «fratello nel Signore» (Filemone 1,9b-10.12-17).
La Rivoluzione dell’amore ha, infatti, un significato relazionale, non si fa da soli: l’altro è incluso, è protagonista, pure se non ama; addirittura se tradisce, ha recentemente affermato Papa Leone, ricordandoci la forza rivoluzionaria, trasfigurante, disarmante del «perdono» che Gesù dona e rende capaci di donare . Un «perdono» che è «gioia di Dio prima ancora che gioia dell’uomo» , gridava proprio qui a Frosinone Giovanni Paolo II nel 2001.
Il Vangelo ci consegna l’impegno a essere comunità che mette l’altro al centro; che impara a camminare insieme accorgendosi di chi resta indietro, di chi perde le forze, di chi forse ha gettato la spugna e pensa che non ci sia più nulla da fare. È questo il cuore della Chiesa in cammino sinodale!
Cari amici, se non vogliamo che il Sinodo diventi una sorta di “parlamento” che cerca rivendicazioni o maggioranze – rischi da cui ci ha messo in guardia Papa Francesco – deve essere, direi, Pellegrinaggio. E come non pensare che questo cammino inizia per noi nel Giubileo che ci vede Pellegrini di speranza? Come la folla dietro a Gesù, siamo comunità di pellegrini verso Gerusalemme, città che, nonostante guerre e fatiche, rimane simbolo della Chiesa terrena e celeste.
Arriviamo così al significato ecclesiale della Rivoluzione dell’amore: la comunione! Comunione come identità della Chiesa e sua unità infrangibile in un mondo frammentato. «La Chiesa è, in Cristo, come Sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». È così che la definisce il Concilio Vaticano II. Se una priorità sento affidata da Dio nel ministero che inizio è proprio l’unità, la comunione nella nostra Chiesa. Di essa il Vescovo è a servizio, quale «visibile principio e fondamento», insegna ancora la Lumen Gentium. Unità che si nutre della consapevolezza e del rispetto della dignità intrinseca di ogni essere umano e si fonda in Cristo. Unità che si alimenta del riconoscimento dei carismi dello Spirito e della loro valorizzazione per la maturazione della Chiesa stessa. Unità che, a noi, chiede la comunione tra le due Diocesi, come esaltazione delle diversità e ricchezza della complementarietà: una grammatica che solo l’amore suscita e riconosce. Soprattutto, unità che esige comunione tra vescovo e presbiteri, tra presbiteri, nelle comunità religiose, in famiglia… Sì, cari amici: la comunione! Aiutatemi voi, prima di tutto voi sacerdoti, parte amata del mio ministero, a percorrere questo cammino che, solo, farà crescere la Chiesa e ci farà crescere nell’amore.
La vera Rivoluzione, oggi, è ripartire da tale unità. È cambiare la prospettiva dell’individualismo imperante che sa di egoismo e solitudine, violenze e abusi, disperazione e morte: quanti problemi, anche etici, hanno qui la loro radice più profonda e necessitano di essere passati al vaglio dell’amore! È vero, nel Vangelo Gesù sembra mettere in secondo piano i legami umani; in realtà, ci invita a riscoprirli come sacramento dell’amore di Dio, dell’Alleanza sponsale tra Cristo e la Chiesa, perché la persona si realizzi nel dono e nella fraternità. I legami radicati in Cristo non chiudono, non costringono, non possiedono, non accomodano nell’autosufficienza, ma sono radice e sicurezza per vivere la libertà, la giustizia, la pace.
Ecco, allora, che la Rivoluzione dell’amore assume un significato sociale; è fondamento e fine della Dottrina Sociale della Chiesa, grazie alla quale possiamo incarnare il Vangelo nella città dell’uomo e servirla, in collaborazione con le nostre istituzioni e, non ultimo, valorizzando il creato e il patrimonio culturale che arricchisce la nostra terra. Gesù ci invita a stare al mondo in modo realistico, addirittura calcolando le risorse; il cristiano sa e deve farlo. Ma è singolare che il calcolo dei propri averi, anche delle proprie forze, sfoci poi nella «rinuncia». La lettura sociale del brano evangelico è interessante: non c’è «avere», anche economico, che non serva a «dare»; non c’è «potere», anche politico, che non sia finalizzato alla «pace», dunque al bene comune.
Sono fortemente convinto di quanto l’impegno per la giustizia, per l’accoglienza di tutti – dal bimbo nel grembo materno al morente, dallo straniero al povero – sia un fecondo germe di pace, come affermava ancora Madre Teresa. L’ho sperimentato in modo forte nel ministero tra i militari italiani e, con gioia, lo vedo confermato nell’impegno vivo della nostra Chiesa: in voi laici maturi, coerenti, capaci di tradurre la fede in opere; di operare un «bene non forzato, ma volontario», direi parafrasando le parole di Paolo. E ciò è vero tanto per i singoli quanto per le comunità, i gruppi, le associazioni, custodi di preziosi carismi; tutti ringrazio e invito a un discernimento profondo; da padre e pastore, vi aiuterò a portarlo avanti. La prima Lettura (Sap 9,13-18) lo chiama «sapienza» che viene «dallo Spirito» e ci permette di leggere le «cose della terra» alla luce delle «cose del cielo».
Cari amici, per attuare la Rivoluzione dell’amore Gesù si volta verso noi, ci guarda negli occhi, attende il nostro sguardo e ci consegna la prospettiva del Cielo. È interessante che se, da una parte, rivoluzione vuol dire capovolgimento, dall’altra indica il movimento che un pianeta, ad esempio la terra, compie attorno al sole. Senza tale “moto di rivoluzione”, l’ordine non si armonizzerebbe nell’universo e la terra continuerebbe a girare su sé stessa, smarrendo la direzione.
La Rivoluzione dell’amore ripropone la centralità di Dio; ci dona di vivere attirati nella sua orbita – è meraviglioso! – tenendo fisso lo sguardo su Gesù che ci guarda. È il primato della vita interiore; è l’invito a riscoprire e valorizzare il patrimonio di spiritualità monastica, claustrale, eremitica della nostra terra, sentendolo per tutti noi intercessione potente e insegnamento di vita. Ai contemplativi, ai consacrati, nonché a tutti coloro che pregano e offrono, ricordo che la vostra preghiera, fermamente e fedelmente orientata al «Sole che sorge» (Lc 1,78), sostiene il muoversi della nostra Chiesa, perché non sia un avvilupparsi su sé stessa ma richiami costantemente l’esigenza di relativizzare tutto a Dio, impegnandosi a ripartire dalla Sua Parola, che sarà indispensabile conoscere, meditare, spezzare assieme, per seguire veramente Lui e non l’immagine che di Lui abbiamo. Lo raccomandava pure Giovanni Paolo II, invitandoci a moltiplicare «nelle comunità parrocchiali i momenti forti di studio e di riflessione sulla Parola di Dio», di preghiera, di adorazione. È quello che faremo!
Pellegrinaggio è cammino verso Gesù, incontro a Lui.
Fratelli, sorelle, con gioia iniziamo il nostro cammino affidandolo all’intercessione dei nostri Santi Patroni, Santa Maria Salome e Sant’Ambrogio Martire, e alla protezione materna di Maria, della quale domani celebreremo la Natività. Nei Suoi primi passi vediamo i nostri, certi che il Signore è con noi, ci prende per mano, ci benedice. Tutti! Non temete! “Nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37).
A Lui, e a tutti voi, il mio Grazie. E così sia!
Mons. Santo Marcianò
