Una “Donna di Stato” ai vertici della Magistratura in Calabria
di Pino Nano

Dopo il professore austriaco George Gottlob -il guru mondiale dell’Intelligenza Artificiale, che ha lasciato la sua Università di Oxford per venire a insegnare in Calabria, quindi un “non calabrese”- la seconda eccezione che facciamo oggi è per un magistrato-donna, la dottoressa Marisa Manzini, Sostituto Procuratore Generale presso la Procura Generale di Catanzaro.
In passato Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Cosenza, magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro e Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Lamezia Terme, Marisa Manzini è in Calabria in pianta stabile da ormai 32 anni, e da 32 anni come magistrato non ha mai smesso, neanche per un giorno soltanto, di occuparsi di lotta alla Ndrangheta.
Come tutti i magistrati titolari di inchieste difficili, e per le quali lei stessa ha subito pesantissime minacce, vive una vita blindata, da anni sotto scorta, ma questo non ha mai scalfito la sua serenità e lo stile della sua vita, ancora oggi lei donna avvolta e segnata da grandi passioni civili e di grandi ideali, che conserva gelosamente nel cassetto della sua vita.
Dopo 32 anni di vita consumati in Calabria, anni per niente facili credetemi, interamente e visceralmente spesi al servizio della giustizia e contro ogni forma di criminalità organizzata non potevo non cercarla, e la scusa è stato proprio l’ultimo suo libro, “Il coraggio di Rosa. Storia di una donna che ha ripudiato la ‘ndrangheta”, (Rubbettino Editore), e in cui lei racconta in maniera straordinaria ed efficacissima la vita devastante delle donne di mafia in Calabria, il loro ruolo all’interno delle cosche, e in special modo il coraggio di “una di loro” nel volersi liberare dai legacci del passato e riacquistare finalmente la libertà e la dignità perduta.
Mettiamola così, Marisa Manzini, per aver dedicato lei alla gente di Calabria tutta la sua vita, per aver rinunciato ad una vita comoda nei quartieri nobili di Novara dove è nata, e per averlo fatto conservando sempre e comunque quel rigore e quel garbo istituzionale che è caratterista esclusiva solo di alcuni grandi magistrati di questo nostro Paese, come lo è stato il suo “maestro” Giancarlo Caselli. Un nome che è una delle storie più belle della giustizia in Italia.
-Buongiorno Procuratore, allora partiamo dall’inizio. Posso chiederle come ha reagito quando ha saputo che doveva lasciare Novara e arrivare in Calabria?
“La Calabria, e in particolare Lamezia Terme, è stata una mia scelta, operata all’esito dell’uditorato, il periodo, cioè, di pratica che i magistrati devono svolgere dopo avere superato il concorso.
L’anno in cui ho svolto l’uditorato, presso la Corte di Appello di Torino, è stato un anno che ha segnato la storia del nostro Paese; era il 1992, l’anno delle stragi di Cosa Nostra.
Quando si è trattato di scegliere la località dove andare a svolgere la mia professione, io, come molti dei miei colleghi di corso, non ho avuto dubbi nel scegliere un luogo del Sud, in cui le organizzazioni criminali erano presenti ed agguerrite contro lo Stato. A dirla tutta, avrei voluto trasferirmi a Palermo, la città in cui avevano perso la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma quando arrivò il mio turno di scelta, tutti i posti della Procura di Palermo erano già occupati.
Decisi allora per la Calabria. In quegli anni la ‘Ndrangheta non era ritenuta una organizzazione potente come la mafia siciliana, ma la violenza che la contraddistingueva e le caratteristiche di una organizzazione chiusa e fondata sui legami di sangue la rendevano, già allora, un’associazione mafiosa temuta e pronta ad assumere un ruolo di primo piano nel panorama criminale. Proprio a Lamezia Terme il 4 gennaio 1992, la ndrangheta aveva attaccato lo Stato uccidendo il sovrintendente della Polizia di Stato Salvatore Aversa e la moglie Lucia Precenzano”.
-Si è mai pentita di questa scelta?
“Assolutamente mai”.
-In fondo in fondo poi lei in Calabria ha anche trovato l’amore…
“Si, intanto devo dire che prima mi sono innamorata della terra di Calabria, delle meraviglie della natura che possiede, del mare, dei tramonti che si possono ammirare nella costa tirrenica, delle sue montagne e di tutta la rigogliosa vegetazione. E poi ho conosciuto mio marito e ho capito che il mio futuro sarebbe stato qui”.
-Se sua figlia le chiedesse di fare il magistrato cosa le direbbe?
“Sarebbe un grande regalo, ma mia figlia ha altri interessi.
Ad ogni modo, le direi che la professione di magistrato, soprattutto inquirente, è una professione che regala grandi e forti emozioni; spesso ci si dimentica delle proprie esigenze e ci si immerge nelle indagini con l’obiettivo di fare giustizia, soprattutto per le vittime che hanno subito i torti peggiori.
Io spesso dico che è la professione più bella del mondo”.
-Il giorno più difficile della sua attività di magistrato?
“Ci sono stati e a volte ancora ora ci sono giorni difficili. Sono quelli in cui mi rendo conto di non essere riuscita a dare giustizia alle vittime. Per diversi motivi. Perché l’indagine non ha dato i frutti sperati, perché non c’è stata la necessaria collaborazione delle persone, perché le norme sono cambiate e quello che prima era utilizzabile a fini probatori, ora non lo è più”.
-E invece il giorno di maggiore serenità?
“Quello in cui intimamente sento che giustizia è stata fatta”.
-Ha una canzone preferita della sua vita?
“Si, Imagine, di John Lennon”.
-L’ultimo libro letto e che le è piaciuto molto?
“!Uno degli ultimi libri che ho letto e che mi è piaciuto molto è “Il Dio dei nostri padri: il grande romanzo della Bibbia” di Aldo Cazzullo.
L’ho trovato molto avvincente per la capacità dell’autore di affrontare la Bibbia in modo accessibile a tutti. Non si tratta di una analisi teologica, piuttosto l’autore è riuscito a trasformare episodi sacri in storie attuali, vive, in grado di trasmettere valori e senso di umanità”.
-Come nasce la sua scelta di fare il magistrato?
“Ho deciso di prepararmi per il concorso in magistratura – con la consapevolezza che avrei potuto anche non farcela – perché durante gli studi per conseguire la laurea in giurisprudenza, tra i diversi protagonisti del processo, quello che più mi affascinava era il magistrato.
Il concorso in magistratura è però molto impegnativo, bisogna studiare davvero molto ed è necessario anche un pizzico di fortuna. Mi è andata bene”.
-Nel suo libro parla del “suo maestro”, ma chi è stato realmente il suo maestro, il prof. Cattaneo?
“Il prof. Cattaneo è stato certamente per me un grande maestro, era il mio professore di diritto civile, con cui ho anche collaborato dopo la laurea.
Quando però nel mio libro parlo del “maestro”, mi riferisco ad un magistrato. Nel romanzo è un magistrato frutto di immaginazione, ma se devo parlare di me, io ho avuto un grande maestro a Torino, il dott. Giancarlo Caselli”.
-Anni di vita blindata: quanto pesano?
“Dall’anno 1999 il Comitato per l’Ordine e la Sicurezza ha ritenuto ci fossero condizioni di pericolo per la mia persona tutelabili con una misura di protezione.
Da allora, in ogni spostamento sono accompagnata dalla scorta. Nel tempo, gli uomini che mi seguono sono diventati persone di famiglia e, con onestà, superato un primo momento di smarrimento, connesso ad un immaginabile cambiamento di vita, la scorta fa parte della mia stessa esistenza”.
-La sua inchiesta più difficile?
“Ce ne sono state tante.
Quella che ritengo sia stata la più impegnativa, soprattutto per il coinvolgimento anche emotivo che mi ha comportato, è quella per un omicidio e occultamento di cadavere. La vittima era un giovane uomo appartenente ad una famiglia per bene che, per motivi inesplorabili, aveva deciso di avvicinarsi prima ed integrarsi poi, con la criminalità ndranghetista del suo comune. Il desiderio di raggiungere posizioni apicali nell’organizzazione lo aveva portato a scontrarsi con criminali senza scrupoli che lo hanno ucciso e ne hanno occultato il corpo senza fornire alcuna indicazione circa il luogo dove i poveri resti si trovano. La madre ancora oggi non può recitare una preghiera sulla tomba del figlio”.
-Nei suoi libri parla sempre della sua scorta…
“Ne parlo perché, come dicevo prima, fa parte integrante della mia vita. Sono uomini che mi accompagnano e che mi proteggono e a cui non posso che esprimere la mia stima, per la professionalità che mettono nel loro lavoro”.
-Ha ancora un sogno nel cassetto?
“Il sogno più bello è quello di vedere un cambiamento reale in questa terra, cambiamento che parta dai giovani, che sanno sognare e che sanno che solo la sconfitta delle mafie può restituire al mondo quel fresco profumo di libertà che Paolo Borsellino desiderava per le giovani generazioni”.
-Come immagina il suo futuro?
“Il mio futuro immediato lo immagino sempre nelle aule della Corte. Vorrei anche proseguire nella scrittura. Attraverso la narrazione si possono rendere immortali le storie delle persone, quelle che maggiormente ci hanno segnato l’esistenza. A volte, poi, attraverso la narrazione si possono anche cambiare delle storie, dare loro degli epiloghi differenti, mandare dei messaggi e cercare di avviare dei cambiamenti”.
-Per che cosa vorrebbe poter essere ricordata il giorno in cui lascerà ma magistratura?
“Spero di essere ricordata come un magistrato che ha cercato di fare il proprio dovere, senza compromessi e, soprattutto con una attenzione particolare alle vittime dei reati. Insomma, un magistrato che ha messo al primo posto le vite delle persone”.
-Ad una ragazza che le dicesse “voglio fare il magistrato”, che consigli le darebbe?
“Che quella del magistrato è la professione più bella del mondo, ma è anche molto impegnativa. Non si può pensare di chiudere i fascicoli come fossero semplicemente carte da sistemare, perché dietro ogni fascicolo processuale ci sono le vite delle persone e quelle vite meritano rispetto”.

Il suo ultimo libro è un inno al coraggio delle donne
“Io credo che sia necessario che la gente, e soprattutto i giovani, comprendano che lo Stato non è qualcosa di lontano e assente, ma che è pronto a rispondere alle loro richieste. Gli incontri nelle scuole e la narrazione di esperienze vissute sono necessari per avvicinarli alle istituzioni e, soprattutto, per fare comprendere che vivere nella legalità, nel rispetto delle regole, significa rispettare gli altri e quindi se stessi. La nostra legge fondamentale, la Costituzione della Repubblica italiana, riconosce i diritti fondamentali dell’uomo, quelli che la ndrangheta calpesta ogni giorno; ricordare ai giovani, attraverso le esperienze vissute, che vivere nella legalità significa avviare un cambiamento nella nostra società che porterà alla sconfitta nella organizzazione criminale oggi più potente, è un compito che, io credo, le istituzioni dovrebbero assumersi con grande impegno”.
“Il coraggio di Rosa. Storia di una donna che ha ripudiato la ‘ndrangheta”, Rubbettino Editore, è un libro che vi consiglio di leggere, perché è uno squarcio impietoso e fortissimo nel cuore della ndrangheta di questi anni, ma perché è soprattutto il dialogo intimo e quasi riservato tra due donne molto diverse e distanti tra di loro.
“Io credo che sia necessario che la gente, e soprattutto i giovani, comprendano che lo Stato non è qualcosa di lontano e assente, ma che è pronto a rispondere alle loro richieste. Gli incontri nelle scuole e la narrazione di esperienze vissute sono necessari per avvicinarli alle istituzioni e, soprattutto, per fare comprendere che vivere nella legalità, nel rispetto delle regole, significa rispettare gli altri e quindi se stessi. La nostra legge fondamentale, la Costituzione della Repubblica italiana, riconosce i diritti fondamentali dell’uomo, quelli che la ndrangheta calpesta ogni giorno; ricordare ai giovani, attraverso le esperienze vissute, che vivere nella legalità significa avviare un cambiamento nella nostra società che porterà alla sconfitta nella organizzazione criminale oggi più potente, è un compito che, io credo, le istituzioni dovrebbero assumersi con grande impegno”.
Nella dedica che Marisa Manzini -che oggi per mestiere fa proprio il magistrato in Calabria e ai massimi livelli della sua carriera- propone in apertura del suo romanzo c’è per intero lo spirito e il messaggio forte dedicato alle donne. In questo caso, donne di ‘ndrangheta.
È una frase di Virginia Woolf che il magistrato ha tirato fuori da Una stanza tutta per sé: “Le donne devono sempre ricordarsi chi sono, e di cosa sono capaci. Non devono temere di attraversare gli sterminati campi dell’irrazionalità, e neanche di rimanere sospese sulle stelle, di notte, appoggiate al balcone del cielo. Non devono aver paura del buio che inabissa le cose, perché quel buio libera una moltitudine di tesori. Quel buio che loro, libere, scarmigliate e fiere conoscono, come nessun uomo saprà mai”.
“Con questo romanzo – spiega Marisa Manzini– ho voluto mandare, alle donne di ndrangheta, un messaggio forte e chiaro. Con coraggio e con determinazione si può scegliere, avvicinandosi allo Stato, di riacquistare la propria libertà. Ai lettori vorrei invece che arrivasse un messaggio altrettanto forte, oggi la ndrangheta è una organizzazione che calpesta gli esseri umani, che si ritiene padrona di territori e di persone a cui, con la intimidazione e la violenza, può imporre le proprie pretese”.
Lo confesso, non so dirvi esattamente se siamo in presenza di un romanzo vero e proprio, o siamo invece in presenza di un saggio letterario “spacciato” come romanzo. Di sicurò, però, questo libro è senza dubbio un “manifesto” coraggiosissimo contro la violenza spietata e smisurata della ndrangheta calabrese.
“La vera protagonista del romanzo è Rosa, ma l’altra figura importante è rappresentata dal magistrato donna che, con la fermezza e la sensibilità che solo una donna può avere, conduce Rosa nella direzione giusta. Daniela Rovida è un magistrato che ama il proprio lavoro e che ama la Calabria. Studia le persone, le analizza e cerca di arrivare ai sentimenti. Nella mia esperienza professionale ho cercato di usare lo stesso metodo”.
Dico di più, questo di Marisa Manzini è un libro che andrebbe adottato nelle scuole, perché questo messaggio di “ribellione alla ndrangheta” possa finalmente rimbalzare dalle aule scolastiche nelle case e nelle famiglie di questa nostra realtà, ancora così fortemente provata e soffocata dalla delinquenza organizzata.
Già nel suo libro precedente “Donne custodi donne combattenti. La signoria della ‘ndrangheta su territori e persone” (Rubbettino anche questo), il magistrato ci aveva spiegato e in maniera chiarissima questo concetto, e cioè che la ‘ndrangheta si insinua, in modo silente, all’interno dell’economia, controlla il territorio su cui opera ed esercita la “signoria” su cose e persone. Lo studio delle relazioni interne alle famiglie ‘ndranghetiste consente di affermare che la prepotente signoria esercitata dalla mafia calabrese si estende anche alla vita delle donne di famiglia, quelle donne che troppo spesso divengono strumento dell’organizzazione.
“Il cambiamento, allora – scrive Marisa Manzini- potrà avvenire solo se, dall’interno della famiglia, la componente femminile, che tramanda i sub valori mafiosi, rifiuterà tale compito e se le donne strumento si trasformeranno in donne combattenti”.
Ne sono convinto anch’io, tutto questo a lungo andare potrebbe anche produrre effetti fondamentali e positivi nella lotta alla ndrangheta, ma questo Marisa Manzini lo sa meglio di chiunque altro, lei che per lunghe stagioni della sua vita è stata nel mirino delle cosche calabresi, lo è stata prepotentemente e davvero, completamente sola nel chiuso della sua procura con accanto solo i suoi uomini di scorta, senza mai cedere però di un solo istante nella sua “caccia all’uomo”. Una donna di Stato a 360 gradi.
“Vorrei che si capisse – spiega con grande lucidità la stessa Marisa Manzini– che la ndrangheta è un problema che riguarda tutti e che, come a Giuseppe, nel romanzo padre di Rosa e di Francesco, persona per bene ed onesta, è stata travolta l’esistenza a causa delle scelte sbagliate dei propri figli, così può travolgere, da un momento all’altro, l’esistenza di chiunque”. Come darle torto?
È quasi iconico il dialogo tra le due protagoniste del romanzo.
“So che lei è diventata madre- dice la giudice Daniela Rovido a Rosa, lei invece erede di una famiglia di ndrangheta- Ha pensato alla vita che sta riservando a suo figlio? Ha immaginato il suo bambino costretto a impugnare una pistola, quando sarà poco più che adolescente? Perché lei sa che è questo ciò che accadrà, vero? Suo figlio crescerà in una casa di mafiosi e diventerà un mafioso. Suo marito ha rischiato di morire poche settimane fa e adesso sono certa che vorrà vendicarsi secondo le regole barbare della sua famiglia. Ammazzerà altri giovani, scoppierà una guerra e forse anche Antonio sarà ucciso. Suo figlio sarà l’orfano che, a sua volta, vorrà vendicare il padre secondo gli insegnamenti impartiti dal resto del gruppo. E il suo futuro sarà in galera o sotto terra. È questo quello che vuole per Salvatore?”.
Ci sono pagine e pagine di questo libro che emozionano, che letteralmente ti avvolgono, perché sono di una forza espressiva al di sopra di ogni regola letteraria, ricche di una forza e di una intensità che rischiano di confondere chi legge. Mi chiedo, ma sarà tutto vero?
Ad un certo punto del loro incontro, il magistrato si rivolge a Rosa, e con una dolcezza inusitata le dice: “Io sono sicura che lei ha dei sogni. Sono certa che lei vorrebbe che questi sogni si realizzassero, per sé stessa e per il suo bambino. E allora deve svegliarsi e uscire da questo torpore, deve rendersi conto della vita che la attende insieme a suo figlio. Deve raggiungere la consapevolezza necessaria per poter fare la scelta giusta. Lei è una donna giovane e può riprendere in mano la sua vita”.
Poi le affida il suo cuore: “Questo è il mio numero di telefono. Se vorrà, io sono pronta a chiedere per lei, in ogni momento, un programma di protezione che le garantisca un futuro sicuro. Buona giornata Rosa”.
Finché, pagina dopo pagina, Rosa non si convince e accetta di fidarsi completamente della sua amica giudice.
“Aveva lasciato nell’armadio di casa tutti gli abiti firmati, le scarpe, le borse griffate e gli accessori eleganti che le aveva regalato Antonio. Rosa aveva deciso di rompere col passato…”.
È vero, ci sono luoghi che sembrano segnati da un destino ineluttabile e persone la cui storia sembra già scritta nel nome che portano. Ma certe volte -e qui Marisa Manzini supera sé stessa- basta un granello di sabbia nell’ingranaggio per interrompere il balletto meccanico del determinismo sociale e cambiare il corso degli eventi.
Quando Antonio Mandelli mette gli occhi su Rosa Bellomo -procedo per sintesi- lui è già un personaggio di spicco della ’ndrangheta di Nicotera e lei poco più che una ragazzina. Il coraggio di Rosa è la storia, una delle tante possibili, di questo incontro fatale, di destini che sembrano inesorabili, e di una ribellione felice favorita da un incontro provvidenziale. E non è un caso che le protagoniste di questo romanzo siano due donne, una ragazza cresciuta troppo in fretta in un mondo governato da ancestrali leggi di sangue, e una giudice venuta dal nord che di quel mondo si è innamorata fino al punto da volerlo cambiare, un granello di sabbia alla volta.
“Il coraggio di Rosa” -chiarisce Marisa Manzini- è la mia terza opera. Le prime due erano saggi, questo è un romanzo. È stata anche questa una sfida. Volevo arrivare con più facilità alle persone, soprattutto ai giovani, con un linguaggio che fosse più immediato e semplice, occupandomi, però, del tema della ndrangheta. Ho pensato potesse essere un modo per lanciare messaggi attraverso uno strumento maggiormente attrattivo. Il tema che ho voluto far emergere è quello che attiene alla figura femminile all’interno dei contesti mafiosi; Rosa è una donna che vive in una famiglia di ndrangheta, che gode dei privilegi di essere donna di un capo ma che sconta anche gravi limitazioni alla propria libertà di essere umano a cui, a poco a poco, viene calpestata la dignità. Le donne, nella ndrangheta sono assoggettate alle decisioni dei maschi, diventano strumenti nelle loro mani”.
Un libro autobiografico? Il sospetto che mi viene è che questo libro sia in realtà il diario di viaggio forse più fedele di Marisa Manzini-magistrato per scelta e per passione- e in cui questa “donna di Stato” ricostruisce e racconta una delle inchieste più delicate e più pericolose della sua vita alla Procura di Vibo, cosa che lei fa usando gli stessi schemi tattici e gli stessi consigli utili “assorbiti” dal suo vecchio maestro.
“Ricordai il periodo di pratica e le parole che mi aveva detto il mio maestro, in occasione di una indagine: A volte capita che una persona, risentita in un momento e in un contesto diverso, ricordi particolari che aveva dimenticato. Potrebbe trattarsi di dettagli apparentemente insignificanti che, invece, sono indispensabili per la risoluzione del caso. Mi raccontò che in occasione di una indagine relativa alla scomparsa di una ragazza, una delle sue amiche, interrogata poco dopo la sparizione, aveva dimenticato di riferire un dettaglio che risultò poi decisivo per le indagini”.
E quando le si presenta davanti una giovane donna che vorrebbe denunciare l’estorsione subita da suo padre, titolare di un negozietto a Nicotera e che non ha il coraggio di farlo per paura di nuove ritorsioni contro la sua famiglia, il magistrato protagonista di questo romanzo le risponde nella maniera forse più inconsueta del mondo: “Staccai un foglio bianco dal black notes che avevo sulla scrivania e scrissi il mio numero di telefono. «Angela, questo è il mio numero… Parli con suo padre. Capisco che rivolgersi ai carabinieri di Nicotera per lui potrebbe essere più difficile… forse teme che qualcuno possa vederlo. Per questo le dico che può venire da me e che faremo il necessario per tutelarvi». Angela mi guardò in silenzio, i suoi occhi erano più sereni. «Grazie… farò di tutto per convincerlo». «Allora attendo una sua chiamata». Angela se ne andò più sollevata: quella donna aveva bi sogno di non sentirsi abbandonata. In fondo, le vittime dei soprusi non hanno il coraggio di denunciare proprio per paura dell’isolamento, noi dovevamo invertire quella tendenza, dovevamo dimostrare alla gente che le istituzioni ci sono, lo Stato c’è ed è in condizione di aiutare chi si oppone alla criminalità”.

Ma una delle cose più belle di questo “diario di bordo” è l’ammirazione, il rispetto, l’attenzione e la stima incondizionata che il magistrato protagonista del romanzo ha per i suoi uomini di scorta, e a cui dedica solo frasi di grande tenerezza generale.
“Ero stanca ed affamata, ma soddisfatta. Salutai i ragazzi della saletta e raggiunsi Rosario e Fabrizio che mi attendevano nell’auto blindata. Il viaggio mi parve particolarmente breve… Quando l’auto si avvicinò alla mia abitazione, notai che tutto era rimasto inalterato. I militari erano ancora lì e appena scesi dal veicolo si misero sull’attenti. Salutai la mia scorta dando appuntamento per le otto del giorno seguente. Il tempo era decisamente bello, la sera era luminosa, con un vento piacevole. I pini marittimi ondeggiavano senza fare rumore, il profumo del mare riempiva le narici”.
Per non parlare delle intercettazioni telefoniche utilizzate nella lotta alla Ndrangheta. Se avrete la pazienza di leggere questo libro capirete finalmente e fino in fondo a cosa servono le intercettazioni nei reati di mafia. Marisa Manzini ne fa una descrizione così attenta minuziosa e meticolosa da farci persino immaginare di essere al centro di questa sala d’ascolto dove lei e i suoi uomini premono un pulsante e ascoltano le telefonate dei loro “indagati”. O immaginare anche questi “signori della Ndrangheta” a bordo delle loro macchine che parlano di tutto e del contrario di tutto, seguiti e ascoltati giorno e notte dalle microspie sistemate a bordo delle loro auto. Un lavoro di intelligence – si può chiamare così?- che il più delle volte produce frutti davvero inimmaginabili e insperati per il resto dell’inchiesta. Come può un romanzo così non essere dunque considerato un “diario di viaggio” di una donna di Stato alle prese a volte con problemi che sovrastano la sua stessa vita privata?
Per non parlare poi anche della sua sfera privata, dei suoi ricordi più intimi, da nonna Maddalena al vitello tonnato, all’insalata russa, agli agnolotti del plin, alla panissa vercellese, un risotto locale tutto piemontese, e che in questo romanzo prende forma attorno alla figura della mamma del magistrato che ha dichiarato guerra alla Ndrangheta.
Bellissimo questo passaggio: “ll telefono squillò. Sullo schermo comparve la scritta casuccia. Erano i miei che, negli ultimi giorni, avevo colpevolmente trascurato. «Pronto, famiglia! Sono tutta orecchi!». «Finalmente Daniela, ti sei proprio dimenticata dei tuoi genitori! Sono due giorni che non ti fai sentire, io e tuo padre eravamo preoccupati ma non volevamo disturbarti o essere invadenti». Mi sentii in colpa coi miei familiari che avevano sopportato il mio allontanamento da Arona senza dire nulla. Ero figlia unica e, pur soffrendo per la mia scelta di trasferirmi a più di mille chilo metri da casa, i miei genitori avevano accettato la mia decisione assicurandomi il loro appoggio, con discrezione e delicatezza. «Hai ragione mamma, sono state giornate impegnative e non ho avuto tempo neppure per una telefonata. Ma state bene? È tutto a posto lì?». «Sì, sì noi stiamo bene, ma siamo preoccupati per te, forse stai lavorando troppo, dovresti prenderti una pausa». «Non stare in pensiero mamma, io sto bene, è solo un momento. Col mio lavoro succede di avere periodi particolarmente intensi…”.
Insomma, c’è di tutto e di più in questo terzo libro di Marisa Manzini, una confessione pubblica del proprio ruolo e del proprio lavoro, un racconto-aperto di cosa è oggi una donna di Stato da queste parti, una lettera-aperta alle donne di Calabria e ai calabresi che 40 anni fa l’hanno accolta a Lametia Terme, lei ancora giovanissima vincitrice di concorso, convincendola a restare per sempre.
“All’università –racconta a Lamezia.it – ho fatto un corso di criminologia e poi mi sono specializzata sulla ‘ndrangheta Era qualcosa che mi affascinava, così come mi ha affascinato la Calabria per il suo clima, le sue bellezze, i suoi abitanti. Volevo capire perché in un territorio così bello, esistesse un numero rilevante di soggetti che costituiva l’antistato, operando soltanto per distruggere e incutere paura”.
Che differenza c’è tra un calabrese nato in Calabria e una calabrese di adozione invece, acquisita da Novara, dove lei è nata, ma che da più di 30 anni però respira la nostra aria e i nostri profumi?
Credo proprio davvero nessuna differenza. Per questo oggi una copertina a lei dedicata.

Magistrato di altissimo profilo
In Calabria da 32 anni, e sotto scorta dal 1999 per il valore e il profilo delle sue inchieste contro la ndrangheta.

Marisa Manzini attualmente svolge le funzioni di Sostituto Procuratore Generale presso la Procura Generale di Catanzaro, ma è già stata in passato Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Cosenza, magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro e sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Lamezia Terme.
Nata a Novara il 17 novembre 1962, sposata con un medico di Lametia Terme, madre di una figlia, consegue la laurea in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano nel luglio 1987, discutendo una tesi in diritto civile dal titolo “Le associazioni di fatto”, relatore il prof. Giovanni Cattaneo.
Dopo aver collaborato con il prof. Cattaneo come cultore della materia e aver svolto il ruolo di Vice Consigliere di Prefettura presso la Prefettura di Novara dal 1989 al 1991, viene nominata uditore giudiziario con DM 3.12.1991, tirocinio presso la Corte di Appello di Torino.
Nel 1993 sbarca in Calabria e inizia la sua carriera come Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Lamezia Terme, dove conduce importantissime indagini contro la ‘ndrangheta, in particolare sui delitti di estorsione ai danni di operatori economici. Durante la sua permanenza a Lamezia Terme, ricopre più volte le funzioni di Procuratore della Repubblica facente funzioni.
Chi la conosce da anni ne parla come di una donna di grande coraggio, che non si è mai tirata indietro, e che ha guidato le sue inchieste più difficili e più delicate con il piglio di una donna di carattere ma anche con il garbo e lo stile di una signora d’altri tempi. Alle spalle Marisa Manzini ha decine e decine di incarichi di altissimo profilo istituzionale.
Dal 2 novembre 2003, e fino al 18 ottobre 2009 lavora alla DDA, con competenza tabellare per i delitti di criminalità organizzata relativamente al tenitorio compreso nel circondario del Tribunale dì Vibo Valentia. Le attività investigative da lei dirette -dicono al CSM- “hanno consentito di pervenire al riconoscimento, sul territorio vibonese, di ben sei associazioni mafiose diverse che, benché operanti su quel tenitorio da decenni, non avevano mai ottenuto un riconoscimento giudiziario”.
Ma c’è di più. Nel periodo in cui lei si è occupata di procedimenti antimafia, la DDA di Catanzaro “ha potuto acquisire nuove “collaborazioni” in un territorio difficile e impenetrabile fino ad allora, come quello vibonese, ai confini immediati con la provincia di Reggio Calabria, e in cui non esistevano collaboratori di giustizia se non quelli risalenti ai primi anni 90, gestiti dalla Procura Ordinaria di Vibo Valentia. Ma grazie al suo lavoro sono aumentati anche i testimoni di giustizia, parti offese che hanno inteso collaborare con la DDA, correndo per questo gravissimi rischi personali.
Nel febbraio del 2009 viene designata “Punto di Contatto della Rete Giudiziaria Europea e Corrispondente Nazionale per l’Eurojust”, con compiti diretti a risolvere le problematiche operative che si presentano nell’affrontare le tematiche connesse ai rapporti con gli stati esteri in materia di rogatorie, MAE e, comunque, attività di cooperazione nel corso delle investigazioni su procedimenti relativi alla criminalità transnazionale.
E’ stata collaboratrice della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere; ha diretto il comitato scientifico nel corso di Alta Formazione sulle “Politiche di contrasto alla mafia – Analisi delle mafie e delle strategie di contrasto”, e ha fatto parte del Comitato scientifico nel corso di Alta Formazione sulle “Prevenzione della corruzione nella Pubblica Amministrazione” organizzati dalla Fondazione della Università Magna Graecia di Catanzaro.
Seguita, ammirata e corteggiata anche dal mondo della Chiesa per le sue posizioni di coraggio mille volte espresse in pubblico, da anni è membro del gruppo di lavoro istituito presso il Dipartimento per l’analisi e il monitoraggio dei fenomeni criminali e mafiosi della Pontificia Academia Mariana Internationalis presso la Città del Vaticano.
Specialista in criminologia clinica con indirizzo socio-psicologico, è docente di procedura penale presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Forensi dell’Università Magna Grecia di Catanzaro.
Nel marzo del 2004 consegue il Diploma di specializzazione in Criminologia Clinica con indirizzo socio-psicologico, con il massimo dei voti e la lode presso l’Università degli studi di Modena con una tesi di specializzazione -guarda caso- su “La ndrangheta nel comprensorio di Lamezia Terme: considerazioni sulle conoscenze attuali del fenomeno, con particolare riferimento alle modalità di affiliazione”.
Ha redatto un saggio che è diventato punto di riferimento di mille dibattiti diversi, “Una cosca-famiglia di imprenditori: il caso esemplare del vibonese” pubblicato nel volume “Reti a delinquere –‘Ndrangheta e altre mafie” a cura di A. Vitale collana Meridiana Libri. Saggi 2013 – Donzelli Editore.
Ma porta la sua firma anche “Cosa c’è di nuovo in Mafia Capitale? Un punto di vista giudiziario” collana Meridiana – Rivista di Storia Scienze Sociali – ed. VIELLA, e “La situazione della criminalità organizzata nella provincia di Vibo Valentia” pubblicato nella Enciclopedia delle mafie- Armando Curcio Editore.
Ha contribuito con proprio intervento nella redazione di “Venticinque anni” – pubblicato nel maggio 2017 by La Stampa /40k
Nel corso degli anni ha partecipato a diversi incontri presso le scuole, dove ha trasferito ai ragazzi la propria esperienza in materia di attività investigativa e, piu’ in generale, trattando il tema relativo alla “Legalita’”.
Ha pubblicato tre libri diversi di grande successo editoriale e di grande impatto mediatico soprattutto tra i giovani e gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado: “Fai silenzio ca parrasti assai. Il potere delle parole contro la ‘ndrangheta” edito da Rubbettino in collana Storie, nel settembre 2018; “Donne custodi, Donne combattenti. La signoria della ’ndrangheta su territori e persone” edito da Rubbettino, nel febbraio 2022; e l’ultimo “Il coraggio di Rosa. Storia di una donna che ha ripudiato la ‘ndrangheta” edito da Rubbettino, nel settembre 2024.
Nella prefazione che fa al suo secondo libro “Fai silenzio ca parrasti assai. Il potere delle parole contro la ‘ndrangheta” il magistrato Otello Lupacchini chiarisce ancora di più il concetto-chiave della narrazione che Marisa Manzini da anni ci fa della Ndrangheta: “La ‘ndrangheta è un “elemento costitutivo della società calabrese”; le famiglie di ‘ndrangheta sono cellule della società e, come tali, respirano la stessa aria. Sono cellule malate, però, che si nutrono della parte sana della collettività, dissanguandola. La forza della ‘ndrangheta sta nell’omertà, nella capacità di impedire che si parli della crudeltà e della prepotenza che la contraddistinguono. Il silenzio, a volte determinato dalla paura, altre volte dalla indifferenza o, ancora, dalla vicinanza, ne ha consentito diffusione e consolidamento anche al di fuori dei confini nazionali. È la forza della parola, il coraggio di denunciare, che potrà distruggerla. Le parole fanno paura, ecco perché un capo, Pantaleone Mancuso, atterrito, perde il controllo, nel corso di una udienza in cui è imputato e urla al suo Pubblico Ministero Marisa Manzini: «Fai silenzio, fai silenzio, fai silenzio ca parrasti assai, hai capito ca parrasti assai, fai silenzio ca parrasti assai». Espressione dello stato d’animo di un boss che comprende che il muro che ha costruito per la protezione sua e della sua famiglia sta per essere infranto dal coraggio di chi usa la parola”.
E di tutto questo Maria Manzini è testimonial esclusiva ed eccellente.
Tanti anni fa raccontai di lei in televisione, e questo è il link di uno dei tanti servizi che la RAI le ha dedicato.
https://www.youtube.com/watch?v=1FUe_J7-39U

La forza dirompente della parola
Credo che il libro più “forte” di Marisa Manzini sia “Fai silenzio ca parrasti assai-Il potere delle parole contro la ’ndrangheta”, edito da Rubbettino – la Prefazione è di Otello Lupacchini, ex Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Catanzaro- e in cui Marisa Manzini spiega magistralmente bene cos’è oggi la ndrangheta in Calabria, che potere reale ha, che armi utilizza per mettere in ginocchio un intero sistema sociale, e soprattutto spiega a chi ancora non lo ha capito fino in fondo che la mafia va finalmente raccontata nelle scuole, ai ragazzi, agli studenti di ogni ordine e grado, perché ognuno di loro prenda finalmente consapevolezza di un fenomeno che non teme più nessuno, se non il “coraggio della parola”. Proprio così, “Il coraggio della parola”, la “Forza della denuncia”, il “carisma della speranza”, “la ricerca di un futuro alternativo”, perché a mettere definitivamente in ginocchio questa terra e la vita di molti calabresi sono stati proprio i troppi silenzi istituzionali e soggettivi di questi anni. Ho scelto questo brano, di questo libro scritto dalla giudice Marisa Manzini qualche anno fa, proprio perché dentro -credo di poterlo dire senza ombra di smentita- c’è la vera anima di questa donna di Stato che si è innamorata così tanto della Calabria e della sua gente da esserci poi rimasta per sempre. Eppure, avrebbe potuto scappare via in qualsiasi momento. Storia davvero emblematica, che valeva la pena di raccontare. (Pino Nano)
di Marisa Manzini
“…Il proponimento prefissomi con la scrittura e la pubblicazione di questo volume è quello di rendere protagoniste le persone che, nel corso della loro esistenza, dopo avere vissuto da vittime di se stesse e delle proprie scelte di vita, hanno avuto il coraggio di parlare e ripudiare le opzioni sbagliate.
Si tratta di uomini e donne che ho avuto il privilegio di incontrare e che, sul territorio dove la ’ndrangheta appariva e appare, forse, ancora invincibile, hanno dato prova di coraggio e volontà, dimostrando, con la forza della parola, di poter dare un importante contributo al cambiamento.
Non pochi tra loro hanno raggiunto la consapevolezza e trovato la forza di cambiare dopo aver commesso gravi delitti, spezzato vite e soggiogato imprenditori e commercianti. Altri, invece, costretti a subire per anni soprusi e violenze, hanno compreso che solo la forza della parola avrebbe consentito loro di riacquistare la libertà.
Resta l’amara considerazione che anche coloro i quali mai hanno compiuto reati, e che, dopo tante violenze, hanno avuto il coraggio di parlare, divenendo testimoni di giustizia, sono stati costretti, per motivi di sicurezza, ad abbandonare la loro meravigliosa terra. Ricostruire la propria vita lontano dalle proprie radici è difficile; anzi rappresenta un’ulteriore forma di violenza.
Mentre scrivo questo libro, però, una grande speranza si infonde nell’anima. L’aula del Senato ha approvato, in via definitiva, una nuova legge che definisce meglio la figura del testimone di giustizia, ne garantisce la protezione e personalizza gli interventi, accogliendo così le proposte che la Commissione Parlamentare Antimafia aveva già formulato nell’anno 2014. L’auspicio è che l’interpretazione delle disposizioni normative di cui è composta, risponda alle esigenze dei soggetti a cui è rivolta, intesi nella loro più ampia accezione di persone con esigenze materiali e intellettuali che meritano di essere garantite e tutelate dallo Stato cui si sono affidate.
La guerra alla ’ndrangheta non può prescindere dalla collaborazione dei cittadini.
La parola ha una forza dirompente; i mafiosi temono chi ha il coraggio di parlare.
Vogliono e urlano il silenzio, anzi lo pretendono.
L’omertà rappresenta uno dei cardini su cui si fonda la forza della ’ndrangheta.
Nel corso dell’udienza del 10 ottobre 2016 del processo denominato “Black Money”, uno degli apici del gruppo ’ndranghetistico, Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, per dimostrare il proprio potere, seppure ristretto in carcere e sottoposto al regime duro, non si asteneva dal lanciare un messaggio chiaro alla comunità, rivolgendosi perentoriamente al pubblico ministero del processo con le seguenti parole: «Fai silenzio, fai silenzio, fai silenzio ca parrasti assai, hai capito ca parrasti assai? Fai silenzio ca parrasti assai».
Frasi che denotano il terrore che le cosche nutrono nei confronti delle parole, di chi parla.
Questa terra ha il diritto di rinascere, di riemergere dallo stato di torpore in cui si trova da troppo tempo; ha il diritto di presentarsi al mondo per le bellezze naturali di cui dispone e che Dio le ha concesso.
Occorre fornire alle nuove generazioni, attraverso la conoscenza, gli strumenti per poter correggere gli errori commessi da quelle che le hanno precedute, modificando il cammino degli eventi.
Parlare di ’ndrangheta nelle Scuole, inserire la storia della criminalità organizzata nei programmi ministeriali, trattando, con i giovani, delle conseguenze devastanti che le mafie hanno prodotto nella società e nella vita politica, rappresenta l’unica possibilità di formare nuove classi dirigenti più consapevoli e pronte ad affrontare e risolvere i problemi atavici di questa terra.
Bisogna parlare al cuore dei cittadini, affinché le emozioni – che solo chi racconta la propria storia, direttamente o per il tramite di chi l’ha ascoltata, riesce a trasmettere – possano trasferirsi nella mente di ciascuno, trasformandosi in volontà di azione, volta ad avviare un nuovo percorso per la Calabria”.


L’ appello al mondo della stampa
“Il racconto delle vite di chi ha avuto la capacità e il coraggio di operare una svolta alla propria esistenza in terra di Calabria, deve solo essere l’incipit di una storia di rinnovamento.
Serve tempo per rimuovere ciò che per lunghi anni ha deturpato le bellezze del meridione. Serve consapevolezza per avviare un’opera di rigenerazione; serve la credibilità delle istituzioni che, troppo spesso, hanno svolto un ruolo comodo, nascosto se non connivente.
Come affermava Seneca nel De brevitate vitae, non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. È giunto dunque il momento in cui i cittadini di questa terra di Calabria operino per realizzare i necessari cambiamenti.
Non serve rimpiangere il passato, lagnarsi del presente e disperare dell’avvenire; serve parlare e denunciare. Ma per ottenere un reale cambiamento nella cultura meridionale, serve soprattutto informazione.
È importante il linguaggio della verità; è necessario che i cittadini calabresi sappiano che la criminalità non porta benessere e lavoro, ma semina angoscia, disperazione e morte.
La stampa calabrese ha un grande compito, quello di consentire ai cittadini di comprendere le nefandezze del mondo ’ndranghetista.
Ringrazio il mio editore che mi ha consentito di raccontare vite di donne e di uomini che hanno, nel loro piccolo, fornito alla giustizia tutto ciò che era nella loro disponibilità, mettendo a disposizione, attraverso le parole, le armi più importanti per combattere una criminalità odiosa che vive di silenzi e paure”.
(Marisa Manzini)

