
Giuseppe Fabiano conquista Roma Capitale
di Pino Nano
Roma, Palazzo della Cancelleria Vaticana, domani 22 aprile 2025 l’inaugurazione ufficiale di “Trame di terra e di cielo” l’ultima sfida culturale di Giuseppe Fabiano industriale leader del settore tessile in Toscana e che a Prato è diventato punto di riferimento dei grandi mercati stranieri. La sua storia sembra quasi un romanzo.
“Da ragazzo facevo gelati al Bar centrale di Pasquale Settino. Sono nato a destra della torre dell’orologio di San Pietro in Guarano, che era il cuore del paese. Scuole elementari e medie insieme…”.
Classe 1957, 67 anni il 16 luglio, la storia di Giuseppe Fabiano è una storia di immensa miseria, e di straordinario riscatto sociale, una di quelle storie che sembrano costruite per il cinema, o per farne una fiction di successo.
Nato poverissimo a San Pietro in Guarano, siamo alle porte di Cosenza, oggi lui in Toscana, a Prato, è un protagonista di primissimo piano dell’industria tessile italiana. Ricordiamo che l’economia di Prato è storicamente basata sull’industria tessile e il distretto industriale di questa città è considerato il più grande in Europa. Circa 7 000 imprese nella Moda, di cui oltre 2 000 nel Tessile in senso stretto, e un fatturato medio di circa 2 miliardi di euro con l’export.
“Lasciato San Pietro, da Paola a Firenze arrivai con la tradotta. Avevo con me le vecchie valige di cartone pressato legate proprio con la corda. Lì raggiunsi mia sorella, che già lavorava in uno stabilimento tessile della Prato degli anni 66/70. Annamaria era arrivata nel 1968.Io sono arrivato a Prato nel ’72 quando eravamo ancora in terza media; ricordo che stavamo studiando Alessandro Manzoni, avevo appena 15 anni e qualche mese”.
Il papà di Giuseppe, Ciccio Fabiano, era un operaio come tanti, che sbarcava il lunario alla meno peggio, data la crisi profonda di quegli anni in Calabria. La mamma, Maria Intrieri, era invece una instancabile casalinga di quei tempi. A casa con lui crescevano due sorelle Annamaria e Rachele, che poi hanno finito per ritrovarsi insieme con lui a Prato.
“Quella che trovai una volta arrivato qui a Prato, era un’azienda completamente diversa da quella di ora. Allora non creavamo questi fili che vedi, eravamo ad un livello molto più rudimentale. Era soprattutto una realtà molto piccola. Ma è qui che iniziai il mio primo lavoro come operaio delle macchine”
La “Ritorcitura Fabiano” – si chiama così la sua industria – è presente nel territorio pratese da quasi 40 anni. Venne fondata nel 1984 grazie ad un’intuizione di Giuseppe che è riuscito a mettere in piedi un’azienda moderna e innovativa, con un team giovane e professionale.
“I nostri articoli oggi fanno parte dell’eccellenza italiana nel mondo, una storia, un metodo di lavoro, una capacità creativa e manifatturiera unica. Affidabilità, servizio, consegne rapide e puntuali, alta qualità: queste sono le caratteristiche della nostra azienda, assicurate da un assortito magazzino, da un’attenta selezione dei filati, dall’esperienza maturata negli anni e dalla conoscenza del prodotto e del mercato”.
-Giuseppe, come ricorda gli inizi di questa azienda?
“Appena arrivato a Prato, trovai il mio primo lavoro in un’azienda che aveva allora tre turni di lavoro, mattina pomeriggio e notte, uno più massacrante dell’altro. A quindici anni facevo già gli stessi turni regolari che facevano tutti gli altri. Mi capitava spesso di lavorare di notte. Poi diventai apprendista del reparto. Poi ancora, a poco a poco grazie alla mia innata curiosità, sono cresciuto più di quanto io stesso potessi immaginare. Il segreto, lo capii appena arrivato in azienda, era diventare padrone di tutti i passaggi della lavorazione. Non mi perdevo neanche un colpo, di nessuna fase del prodotto che trattavamo, e da ogni situazione cercavo di carpirne segreti e tecniche, soprattutto da chi aveva più esperienza di me. La mia grande fortuna fu che il mio “capo” incominciò a rivelarmi piano, passo dopo passo, tutto quello che del nostro lavoro e della nostra fabbrica poteva trasferirmi. Lui in realtà aveva capito che io avevo voglia di fare, di crescere, di diventare un giorno completamente autonomo, e allora scelse me per trasferire i segreti più intimi della produzione e della lavorazione. E questo fu davvero determinante per il mio futuro e per il mio lavoro”.
-Qual è il ricordo più presente di quegli anni oggi nella sua vita?
“E’ il suono di quella sirena che ogni giorno scandiva e segnava l’inizio del tempo della “libertà” dalle macchine e dall’azienda. Ricordo però che, quando gli altri lavoratori erano pronti a scattare fuori come razzi e a sparire dalla fabbrica, io invece restavo ancora dentro, fra le macchine e i filati, a ultimare e sistemare il mio lavoro, a rimettere tutto a posto, a completare ogni operazione per bene, ma anche a scrutare nel silenzio di quella solitudine i meccanismi e i congegni dell’intera catena di lavorazione. I miei compagni di lavoro mi ripetevano continuamente. “Ma perché te sei così? Tu sei uno Stakanovista, che dai solo vantaggi al padrone, ma lascia perdere, che ci guadagni?” Io lo facevo solo per passione. Avevo solo tanta voglia d’imparare, di capire, di creare. Poi, nel processo naturale di selezione delle maestranze dell’azienda, approdai a un gradino superiore. Diventai uno degli assistenti più capaci del mio Capo Reparto. Fu a quel punto che aggiunsi nuova linfa alle mie conoscenze, completando l’apprendimento dell’intero circuito del processi di lavorazione”.
-Poi lei andò a fare il servizio militare, una pausa mi pare di capire che non interruppe mai il suo rapporto con i suoi padroni e la sua fabbrica?
“In realtà fu solo una parentesi della mia vita il servizio militare, che non creò nessun problema sulla mia vita in fabbrica. Il servizio militare a quel tempo segnava la vita di ognuno di noi, era una sorta di valico dalla gioventù spensierata alla maturità della maggiore età, e io ricordo ero stato destinato per alcuni mesi nella città di Lecce per il CAR. Poi mi spedirono in Friuli, anno 76/77, e in Friuli ero arrivato in concomitanza del terremoto di Gemona. Fui assegnato in una caserma operativa, una caserma che fu anche legata al fatidico tentativo di colpo di Stato, ricorderà il Caso-Gladio o Junio Valerio Borghese, cosa che seppi solo dopo la conclusione del servizio militare, e dove io facevo il carrista pilota. Non ci crederà, ma a me che ero già abituato ai rumori forti e assordanti delle mie macchine da lavoro, toccò guidare un carrarmato. Ricordo ancora lo stridore dei cingoli in un paesaggio di immense sciagure e di morte, ma era quello che il terremoto del Friuli aveva lasciato in eredità al Paese”. Poi, dopo il servizio militare, io tornai al lavoro, e appena rientrato ero già stato designato come capo del processo di filatura dell’azienda. Allora era una specie di record in tutti i sensi, essendo io uno dei “capi” più giovani di tutto il settore tessile del polo di Prato”.
-Si ricorda che tipo di squadra le avevano assegnato da guidare?
“In fabbrica a quel tempo c’erano molti operai anziani, qualcuno aveva più di sessant’anni. Naturalmente non vedevano di buon occhio che, nonostante la mia giovane età, fossi stato proprio io a essere chiamato a dirigere il loro lavoro e la loro vita in azienda. Né tanto meno volevano accettare le novità del mercato. Avevo allora ottantacinque dipendenti, e un capo reparto più vecchio di me di almeno vent’anni. Ricordo che impiegai quasi un anno e mezzo per riconvertire e riprogrammare ogni processo di filatura. Alla fine, producevamo bene, avevamo acquistato buoni i ritmi, e soprattutto buoni i risultati d’impresa”.
-Che prezzo ha pagato a tutto questo?
“Direi un prezzo altissimo. Io mantenevo ritmi di lavoro di dodici ore al giorno, anche se venivo pagato per otto ore non un minuto di più. E un giorno, facendomi forza, andai a colloquio con i due imprenditori Toscani. È viva ancora dentro di me la voce del mio titolare, quella mattina quando bussai alla porta del signor Fratini,” Venga, venga avanti, signor Fabiano!”.
-Cosa gli chiese, e soprattutto cosa vi siete detti?
Cercai di far valere le mie ragioni, sottolineando le nuove conquiste e la nuova redditività dell’Azienda. Cercai anche di esporre le condizioni di lavoro che avevo dovuto sopportare in alcune fasce della mia vita, i ritmi lavorativi che tenevo ogni giorno, dissi che questo era alla base del raggiungimento dei risultati più che lusinghieri della fabbrica. Il mio boss, Fratini, alla fine convenne però con me. Si dimostrò entusiasta su tutto, e ricordo che mi assecondava in ogni cosa.”
-Nessun conflitto, dunque? Mai?
“No, non andò così. Non appena gli feci notare che io mi sobbarcavo dodici ore di lavoro quotidiane, pur essendo pagato solo per otto, allora in maniera molto fredda e distante mi rispose: “Fabiano, io non te l’ho mai chiesto, né l’abbiamo mai obbligata, quello che fa è una sua scelta personale”.
-E lei cosa rispose?
“Quella stessa notte preparai la lettera di dimissioni e, lasciai l’azienda. Era la Like Fil. Consegnai personalmente la mia lettera al signor Fratini, e ricordo che lo pregai solo di leggerla immediatamente. Lui cercò di dissuadermi, ma non ci riuscì. Spero abbia poi compreso che, con quella risposta che mi aveva dato il giorno prima, i miei progetti e quelli per la conduzione della sua azienda non potevano più coincidere. “Si cerchi un altro responsabile, gli dissi, la mia direzione qui in fabbrica si conclude oggi”.
-C’è un dopo da raccontare?
“Dopo la mia rinuncia, l’azienda non riuscì più a risollevarsi, a dare nuovo impulso al lavoro che si faceva, e dopo appena due anni fallì”.
-Ma qui viene il bello, nel senso che lei diventa imprenditore di sé stesso?
“Anche questo è vero, da quel momento inizia per me una nuova stagione professionale e una nuova vita. Non saprei dirle se più felice della prima o meno, ma certamente più impegnativa e più pesante. Subito dopo, iniziai a gestire una fabbrica tutta mia. All’inizio facevo il “contoterzista”.
-Cosa significa?
“Che lavoravo per conto di altri, sempre nel tessile, e questa volta con l’aiuto delle mie sorelle e con il peso di un mazzo di cambiali alte così. Soldi in prestito, ma servivano per pagare le macchine. Così comprai l’azienda di un vecchio impresario che si apprestava a lasciare il tessile per sempre, e da lì abbiamo iniziato a progettare e a realizzare un’impresa tutta nostra, la R1, completamente nuova, che aveva come mission la realizzazione di una nuova filiera, dalla produzione alla vendita”.
-Come finì quell’avventura?
“Agli inizi, avevamo una produzione di quasi il dieci per cento di quella di oggi, e che oggi si attesta attorno a un milione e duecento chili di filato. Con la conoscenza di tanti stilisti e di tante case di moda, ho poi avviato una nuova fase della mia vita, completamente nuova rispetto al passato. Alla fine, ho vinto io, o meglio abbiamo vinto noi Fabiano, ma non è stato così semplice come può sembrare da un racconto veloce come il nostro. Prima o poi chiederò a qualcuno di scrivere la nostra storia perché credo che ne valga davvero la pena”.
-Che effetto le fa essere considerato uno dei massimi esperti al mondo di Alpaca?
“C’è una cosa che tutto il mondo industriale del tessile conosce bene, e cioè che l’ Alpaca è il fiore all’occhiello della Ritorcitura Fabiano di Montemurlo di Prato. E la Ritorcitura Fabiano di Montemurlo di Prato siano noi, i Fabiano di San Pietro in Guarano, figli del sud dalla testa ai piedi, arrivati qui poveri in canna senza arte né parte, e che per farsi rispettare hanno sudato sette camicie. Forse molte di più. Quando decisi per la prima volta che dovevo diventare il numero uno del settore dell’Alpaca a Prato mi presero per pazzo. Ma io partii lo stesso, e fu una delle avventure professionali più affascianti della mia vita”.
-Nel suo caso partire voleva dire arrivare in Perù, e trent’anni fa era davvero un’impresa?
“Non mi risulta che le imprese impossibili siano facili da affrontare e da superare. Ma io capii che per diventare un numero uno del settore dovevo forzare la mano, e comprai il mio primo biglietto aereo Roma-Lima. Mi ricordo che era una tratta complicatissima, 12 mila chilometri, più di sedici ore di volo. Se sceglievi la compagnia Iberia, c’era un diretto da Fiumicino, ma se volevi un viaggio un tantino più comodo dovevi scegliere la compagnia tedesca KLM via Berlino. Insomma, non era facile neanche arrivarci”.
-E una volta arrivato a Lima?
“In Perù fu amore a prima vista. Amore per la gente, amore per la loro miseria, amore per la serietà con cui trattavano i loro affari, amore per questo animale, quasi sacro come lo è l’Alpaca. Ricordo che quando facevo il consulente per una grande produzione peruviana, c’erano due aziende che gestivano il mercato dell’Alpaca, la Michell e la Incalpaca. Furono loro che chiesero immediatamente la mia consulenza, e questo per me rappresentò una grande occasione commerciale, uno scambio di know how che segnerà per sempre il resto della mia vita”.
-Praticamente cosa faceva?
“Loro ci fornivano la materia prima e noi la riportavamo anche in loco in forma di filo, e questo è andato avanti fino a quando anche i peruviani non hanno poi imparato direttamente a fare da soli”.
-Quante volte è stato laggiù?
“In Perù, ci sono stato tantissime volte. Conosco bene i centri rurali a quattromila e ottocento metri d’altezza, dove vengono allevate le Alpacha, questi camelidi tipici della cordigliera delle Ande che vivono allo stato brado. Ma sono spesso andato anche in Australia, sempre per la scelta e la ricerca delle lane migliori. Posso senz’altro dire di aver girato il mondo. Sa una cosa? La conoscenza del settore è fondamentale, perché per creare un filo bisogna conoscere molto bene le fibre con cui devi dargli consistenza, elasticità, volume, forza”.
-Lei oggi continua a girare il mondo, ma forse è il momento di un bilancio finale non crede?
“Ho incontrato popoli e l’umanità di mondi lontani, ho conosciuto i pastori della Mongolia nelle terre del Cashmere. Il Cashmere è una capra che vive sulle alture Mongole, che non viene tosata, viene solo pettinata con dei pettini speciali, sotto l’occhio vigile di espertissimi pastori nomadi che si spostano di continuo. Sono Mongoli. In Cina Iran e Kazakistan il cashmere è oggetto di attenzione delle grandi griffe, Loro Piana, Cariaggi comprano lì la materia prima. Essere in quei posti e avere uno scambio con i pastori è stata una cosa bellissima. È un pò come un viaggio moderno del protagonista di “Seta” di Alessandro Baricco. In quel pezzo di terra lontana, sono riuscito veramente a capire il rapporto vero fra uomini, madre terra e i loro amici animali”.
-E il Perù, le Ande, come me li racconterebbe?
“Laggiù ho conosciuto le loro condizioni di vita, soprattutto la vita delle piccole comunità peruviane che a 4800 metri di altezza non hanno la possibilità di mandare a scuola i loro bambini. È un’umanità che vive in piccoli gruppi, molto affezionati ai loro camelidi, dai quali – grazie al tesoro dell’antichissima tradizione orale e manuale- riescono a ricavare vesti, coperte e indumenti di ogni genere. Un mondo bello, devo dire, nella sua semplicità, anche se più volte ho pensato che i poveri pastori di quella terra per via della loro miseria non avranno mai modo di poter vedere la trasformazione finale della loro lana. Pensi che ho trovato piccole famiglie che. ancora oggi. abitano in piccole capanne di pietra, ho conosciuto una famiglia meravigliosa con la nonnina che si esprimeva in un antichissimo dialetto Inca, ormai del tutto scomparso, e di cui solo la figlia riusciva a capire poche parole, mentre le nipoti non comprendevano niente, perché parlavano solo spagnolo”.
-Giuseppe, lei ha mai pensato di poter ritornare in Calabria?
“Mille volte diverse. Sarebbe meraviglioso poter tornare a casa propria con dei progetti operativi concreti”.
-Ne avrebbe uno già pronto?
“Vorrà dire, alcuni già pronti? Ma certo che li ho, e spero un giorno di poter realizzare il mio sogno più segreto che è quello di poter ridare alla mia terra natale quello che la mia terra ha dato a me e alla mia famiglia in termini di amore e di solidarietà. Nessuno mi ha mai voluto così bene come i miei paesani di San Pietro in Guarano e i miei compagni di gioco e di scuola. Ho girato il mondo e nessuno mai mi è rimasto così dentro come loro. Gente di una semplicità senza pari, capace di farti sentire al centro del mondo. Bellissimo davvero”.
-Posso chiederle quali sono i suoi mercati di riferimento?
“Il 50 per cento del nostro lavoro va all’estero, il resto rimane in Europa, e quindi in Italia. Per quanto riguarda il mercato estero noi oggi lavoriamo tantissimo con la Cina, la Corea, il Giappone, il Belgio, la Norvegia, la Finlandia, Il Portogallo, la Turchia, la Spagna, la Francia, la Danimarca, meno con gli Stati Uniti d’America rispetto al passato perché stiamo cambiando il nostro agente che avevano ad Hong Kong e quindi è un’area ancora in parte scoperta. In Italia lavoriamo con i migliori brand del settore, non le faccio i nomi per evitare che si possa pensare ad un messaggio pubblicitario e lo stesso accade per la Francia dove lavoriamo per i più grandi stilisti del momento. Una grande soddisfazione devo dire, che ci ha già dato risultati eccellenti”.
-A chi sente di dovere un grazie particolare?
“A mio padre, a mia madre, alla mia famiglia, ai miei amici, al mio paese, alla povertà che ha segnato la mia infanzia. È nato tutto da lì, dal desiderio di vivere una vita diversa da quella che vivevano i miei genitori in paese. E alla fine il risultato è l’industria che vede, oltre 4 mila metri quadrati di capannoni attrezzati a sfidare il futuro”.